Ignoranza a protezione dello Stato?
Trent'anni fa, la Svizzera affrontava una delle crisi istituzionali e politiche più profonde della sua storia: il cosiddetto "scandalo delle schedature".
Era il primo agosto del 1990, 699° anniversario della Confederazione, quando Max Frisch ricevette a casa un documento di tredici pagine in cui erano elencate tutte le occasioni in cui la sua vita pubblica o privata era stata sottoposta al vaglio della polizia politica. Il noto scrittore aveva appena avuto accesso alle famigerate schede a lui dedicate, che riassumevano e catalogavano centinaia di pagine di atti di spionaggio nei suoi confronti.
I documenti in questione restituivano più di 40 anni di viaggi all’estero, manifestazioni politiche, interventi, dibattiti, incontri e scambi di ogni tipo. Il copioso materiale era stato raccolto però con una certa noncuranza e superficialità, senza metodo, tanto da risultare in molte sue parti insignificante e a tratti ridicolo.
Frisch si accorse subito della gravità di ciò che era accaduto, ma anche della goffaggine dell’apparato di sorveglianza che lo aveva tenuto nel mirino dal 1948 fino allo scoppio dello scandalo. Lo scrittore e architetto reagì a tutto questo in maniera inusuale, decidendo di commentare, correggere ed emendare alcune delle informazioni contenute in quei documenti.
Nacque così l’ultima opera della sua carriera, intitolata Ignoranz als Staatsschutz? (Ignoranza a protezione dello Stato?) e pubblicata postuma nel 2015 dall’editore berlinese Suhrkamp a partire dal manoscritto conservato all’archivio Max Frisch del Politecnico federale di Zurigo.
Alle origini dello scandalo: Elisabeth Kopp
L’enorme apparato di sorveglianza messo in piedi dalla polizia elvetica s’inseriva perfettamente nel clima di tensione provocato dalla Guerra fredda. Non è forse un caso, quindi, che lo scandalo delle schedature, che segnò un’interruzione della sorveglianza sistematica e capillare di attivisti politici su territorio elvetico, scoppiò proprio nell’anno in cui il Muro di Berlino cadde.
La paura comunista, che aveva segnato gli anni precedenti, non era più giustificata e con essa la necessità di spiare militanti, sindacalisti e politici. Tutto ebbe inizio nel 1989, quando la prima donna di governo della storia svizzera, la radicale Elisabeth Kopp, fu costretta alle dimissioni.
La sua colpa era quella di aver telefonato al marito dal suo ufficio governativo chiedendogli di lasciare il consiglio di amministrazione di una società sospettata di riciclaggio di denaro.
Per cercare di fare luce su tutta la vicenda, venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta (CPI), che durante le indagini scoprìCollegamento esterno le dimensioni sconvolgenti dell’apparato di sorveglianza: l’archivio della polizia politica, stando al rapporto, conteneva 900’000 schede dedicate per i due terzi a cittadini stranieri, residenti o in visita, e il resto a cittadini svizzeri, a organizzazioni e avvenimenti politico-culturali di vario genere.
Il presidente della CPI, il socialista Moritz Leuenberger, arrivò addirittura a dichiarare che i nemici dello Stato non erano quelli catalogati dalle schede della polizia, ma erano da rintracciare presso il Ministero pubblico della Confederazione. Molti media elvetici compararono i metodi della polizia politica federale con quelli della Stasi.
Tutto questo creò un forte clima di nervosismo e sfiducia nei confronti delle istituzioni, con pochi precedenti nella storia della Svizzera moderna.
Le proteste contro uno Stato “incarognito”
Il testo di Frisch è rappresentativo delle reazioni di una parte della popolazione svizzera. Dopo la pubblicazione del rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta, nel paese venne a crearsi un ampio movimento di protesta.
“Quando parlo della Svizzera, non parlo dei suoi paesaggi (…), ma faccio riferimento a quello Stato, un’invenzione del 1848 ad opera dei RADICALI, che oggi, dopo il dominio secolare del blocco borghese, si è incarognito (…)”.
Max Frisch
Il primo passo fu quello di costituire un comitato contro «lo Stato ficcanaso» che fonderà subito un giornale Collegamento esternodedicato al tema e, in marzo, lancerà un’iniziativaCollegamento esterno per abolire la polizia politica. Furono organizzate diverse azioni di protesta nel paese che culminarono nella manifestazione del 3 marzo a Berna: in quell’occasione scesero in piazza più di 30’000 persone per protestare contro gli abusi dello Stato in materia di sorveglianza.
Nei precedenti mesi, decine di migliaia di persone avevano fatto richiesta di poter visionare i loro dossier, creando non pochi problemi al governo, che aveva promesso di dare accesso alla documentazione a chiunque lo avesse richiesto.
Lo stesso Frisch, prima della stesura della sua ultima opera, si era impegnato in prima persona per sostenere finanziariamente il comitato. A causa delle sue condizioni di salute, non riuscì a partecipare alla manifestazione del 3 marzo, ma fece leggere un discorso pubblico scritto di suo pugno.
Inoltre, per protesta, insieme ad altri esponenti della cultura elvetica, decise di boicottare le celebrazioni per il settecentesimo anniversario che si tennero nel 1991.
Il 15 marzo di quell’anno, pubblicò una lettera aperta in risposta all’invito di Marco Solari, responsabile delle celebrazioni nazionali, in cui, oltre a declinare l’invito, definì lo Stato svizzero come «incarognito» a seguito del «dominio secolare del blocco borghese».
Il clima nel paese rimase teso ancora per mesi. Le istituzioni federali cercarono di correre ai ripari riformulando regole e prassi relative alla protezione dello Stato. Nel 1997 fu inoltre emanata la Legge federale sulle misure per la salvaguardia della sicurezza interna, in cui fu messo nero su bianco il divieto per le istituzioni federali e cantonali di trattare informazioni relative alle attività politiche e all’esercizio dei diritti inerenti alla libertà d’opinione, d’associazione e di riunione.
Fu anche per questo che l’iniziativa del 1998 «S.o.S. – per una Svizzera senza polizia ficcanaso», nata proprio sull’onda dello scandalo delle schedature, fu respinta chiaramente dal popolo svizzero, chiudendo così un capitolo fondamentale della storia della protezione dello Stato in Svizzera.
La difesa dell’ex direttore della polizia federale
Il rapporto della CPI è molto critico nei confronti della polizia politica perché accusata di mancanza di metodo nella raccolta delle informazioni. La polizia, inoltre, veniva accusata anche di essersi concentrata troppo sui militanti di sinistra.
25 anni dopo lo scoppio dello scandalo, Peter Huber, allora capo della polizia federale, in un’intervista concessa all’Agenzia telegrafica svizzera, difese l’operato della sua squadra, dichiarando che le schede erano soprattutto uno strumento di lavoro interno.
Peter Huber, in questa intervista, ricorda in particolare l’amarezza dei suoi collaboratori causata dalle dichiarazioni di Leuenberger e dai giudizi espressi dai media.
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.