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Come evitare la radicalizzazione dei giovani in Svizzera

Oltre 130 persone sono morte negli attentati commessi venerdì a Parigi. Keystone

La Svizzera può fare di più per fermare i jihadisti. Le moschee possono fungere da istituzioni preventive e lo Stato deve accumulare esperienza per capire come inquadrare i jihadisti che rientrano nel paese, afferma un’esperta svizzera.

Miryam Eser Davolio è una ricercatrice dell’istituto di scienze applicate della Scuola universitaria professionale di Zurigo, responsabile della coordinazione di un nuovo studio sulla radicalizzazione di giovani svizzeri.

Attualmente, circa 70 casi di radicalizzazione jihadista sono oggetto di indagini in Svizzera; in 20 casi sono stati aperti procededimenti penali.

Dopo gli attentati di Parigi di venerdì, definiti un «atto di guerra» dal presidente francese François Hollande, il ministro della difesa elvetico Ueli Maurer ha indicato che non vi sono indizi che lascino pensare per ora ad azioni di questo tipo in Svizzera. Tuttavia simili atti «non sono ormai più totalmente astratti».

swissinfo.ch: In un’intervista alla NZZ am Sonntag, il ministro della difesa Ueli Maurer ha affermato che il pericolo più grande è costituito da «lupi solitari» che vivono in Svizzera e che sostengono l’ideologia dello Stato Islamico. Quanto è significativa questa minaccia?

Miryam Eser Davolio: Dei lupi solitari hanno comunque bisogno di una certa rete di sostegno per organizzare le loro azioni e di persone che condividono le loro idee. In Svizzera ciò può accadere solo su una scala molto ridotta. È l’impressione che ho avuto dopo le nostre interviste.

La situazione è molto eterogenea. Non è come in Francia, dove certe teorie del complotto sono ben radicate e dove vi è una grande collera per l’esclusione e la disoccupazione.

Miryam Eser Davolio courtesy

Da noi, questo problema di disoccupazione dei giovani musulmani è presente soprattutto in cantoni come Ginevra e Ticino, dove vi è una forte concorrenza sul mercato del lavoro a causa dei frontalieri. In queste regioni abbiamo potuto constatare che tra i giovani musulmani vi è un certo malessere. La situazione potrebbe diventare problematica. Tutto dipende dalle chance di integrazione di queste persone.

swissinfo.ch: La Svizzera ha rinforzato le misure di sicurezza per combattere il terrorismo e il parlamento ha approvato una legge che dà più poteri ai servizi di intelligence. Pensa che degli individui riescano ancora a sfuggire alla sorveglianza?

M.E.: Vi è un forte controllo sui social media e su internet e non penso che possano sfuggire.

In alcuni casi, i servizi di informazione sono però sovraccarichi di lavoro, come emerge dall’ultimo rapporto del TETRA [la task force creata dall’Ufficio federale di polizia per coordinare le azioni contro il terrorismo e i jihadisti]. In un caso, ad esempio, avevano 25’000 pagine di trascrizioni di comunicazioni online di una sola persona. Sapendo che magari si tratta di una lingua straniera che va tradotta, ci si può facilmente immaginare il volume di lavoro che comporta seguire queste persone.

swissinfo.ch: La polizia federale e il governo stanno valutando la possibilità di far sì che queste persone non possano lasciare il territorio svizzero. È una misura che potrebbe funzionare?

M.E.: È importante avere dei mezzi per trattenere queste persone. Si tratta però solo di una misura tra le tante.

Penso che la prevenzione sia anche molto utile. Come si è visto in altre parti d’Europa, è importante sostenere le persone che sono in contatto con questi giovani – penso alle famiglie e agli amici – affinché possano farli riflettere.

swissinfo.ch: Qual è la collaborazione tra associazioni, gruppi musulmani, singoli cittadini e polizia per identificare possibili segni di radicalizzazione e denunciare i sospetti?

M.E.: La situazione varia da un cantone all’altro. A Zurigo vi è qualcuno che funge da costruttore di ponti e che è in contatto con diverse comunità musulmane. A San Gallo vi è una tavola rotonda, che permette di dialogare con gli imam. Sempre a San Gallo, sette imam hanno seguito una formazione sull’integrazione, la vita in Svizzera e la radicalizzazione.

A Ginevra, la collaborazione è buona e vi è un grande lavoro di integrazione. La notizia [risalente ad agosto, ndr] di due giovani radicalizzatisi in una moschea ginevrina e partiti per la Siria ha provocato uno choc.

swissinfo.ch: La direttrice della polizia federale Nicoletta della Valle ha dichiarato che l’idea secondo cui queste persone si radicalizzano in moschee svizzere o in seno a organizzazioni musulmane elvetiche è uno «stereotipo». Come avviene allora questo processo?

M.E.: Dalle informazioni dei servizi di intelligence, emerge che la maggior parte di queste persone si è radicalizzata via internet o attraverso degli amici. Le moschee sono, al contrario, piuttosto delle istituzioni preventive. Le persone con idee estremiste che le frequentano devono argomentare. Le loro idee vengono così spesso corrette.

Anche le organizzazioni musulmane hanno un ruolo piuttosto importante in materia di prevenzione. Quando però sono confrontate con persone radicalizzate, spesso hanno paura. Non vogliono avere un’immagine negativa e quindi chiudono le porte a questi giovani, precludendosi nello stesso tempo la possibilità di influenzarli. Potrebbero fare di più, ma per riuscirci avrebbero bisogno di maggior sostegno affinché venga assegnato loro un ruolo di consiglieri per quelle persone a rischio radicalizzazione.

swissinfo.ch: Diversi paesi hanno instaurato dei programmi di deradicalizzazione per i jihadisti che rientrano. In febbraio, nel rapporto della TETRA si affermava che in Svizzera si faceva troppo poco in questo ambito. Cosa ne pensa?

M.E.: Attualmente non esiste nulla. È importante avere dei mentori che possano entrare in contatto con questi giovani. Un ostacolo è la mancanza di esperienza. Bisogna recarsi in Germania, Gran Bretagna, Danimarca o Norvegia per vedere come lavorano su queste persone.

In Svizzera il problema non si pone in modo così acuto, però vi sono giovani che rientrano. La questione è poi soprattutto di sapere cosa fare. Se ad esempio devono andare in prigione. Bisogna essere certi che queste persone abbiano veramente cambiato idea.

swissinfo.ch: Quali sono le altre debolezze – e le forze – della strategia anti-jihadista svizzera?

M.E.: Uno dei punti deboli è che non si affronta il tema dell’islamofobia. In Germania invece sì. È una questione molto importante.

La propaganda dello Stato islamico si basa sulla teoria che i musulmani sono stigmatizzati, esclusi e umiliati nei paesi occidentali. Se questo accade veramente – attraverso l’islamofobia e certe posizioni politiche – la polarizzazione non può che accentuarsi, gettando così i semi per ulteriori radicalizzazioni.

Il Servizio delle attività informative della Confederazione pubblica da poco più di un anno dati mensili sulle persone partite all’estero con possibili finalità jihadiste.

Dal 2001 ad ottobre 2015 sono state rilevate 71 partenze verso zone di conflitto; 57 persone si sono recate in Siria e Iraq, 14 in Somalia, Afghanistan e Pakistan. Tredici sono decedute (7 le morti confermate). Sempre 13 persone sono rientrate in Svizzera.

L’istituto di scienze applicate della Scuola universitaria professionale di Zurigo ha analizzato i casi di 66 giovani, tra cui tre donne, radicalizzatisi tra il 2001 e il 2015. In 16 casi si trattava di persone di meno di 25 anni. La maggior parte aveva tra 23 e 35 anni.

La maggioranza degli aspiranti jihadisti censiti sono musulmani di nascita (52 su 66). La maggior parte è originaria dell’ex Jugoslavia o della Somalia. Dodici persone, in maggioranza svizzere, si sono convertite all’islam.

Traduzione di Daniele Mariani

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