Thailandia: dopo gli scontri si teme il peggio
La situazione rimane tesa a Bangkok, dopo l'irruzione dell'esercito thailandese nell'accampamento delle "camicie rosse" eretto nel centro città. Il timore è che la crisi possa estendersi e compromettere la stabilità della regione.
Bangkok si è risvegliata giovedì mattina in un’atmosfera apparentemente tranquilla. I violenti scontri della vigilia tra militari e oppositori al governo hanno sconvolto non solo la società thailandese, ma l’intera comunità internazionale.
Adottando il pugno di ferro, l’esercito ha messo fine alla protesta delle “camicie rosse”, che da oltre due mesi si erano barricate nel centro della capitale per chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit Vejjajiva.
Diversi edifici, tra cui quello che ospita la Borsa, sono stati dati alle fiamme. Il bilancio delle vittime parla di almeno 14 morti, tra cui un fotoreporter italiano, e un centinaio di feriti.
«La situazione è più o meno calma», ha riferito l’ambasciatrice svizzera in Thailandia, Christine Schraner Burgener, che dopo essersi rifugiata precauzionalmente in un albergo ha fatto ritorno giovedì negli uffici provvisori di Bangkok.
Per stroncare le attività dell’opposizione, ha indicato il Comando delle operazioni per la Sicurezza interna thailandese, è stato prolungato di altri tre giorni il coprifuoco a Bangkok e in 23 provincie, soprattutto nel nord-est del paese.
Legittimità perduta
«Salito al potere grazie all’esercito nel 2006, il governo non aveva molta legittimità già prima della crisi attuale. Oggi, con le critiche su come sta gestendo la crisi, l’ha praticamente persa», afferma Jean-Luc Maurer, direttore del Centro di studi asiatici all’Istituto di alti studi internazionali e dello sviluppo di Ginevra.
Vista l’impasse politica delle ultime settimane, l’assalto dell’esercito thailandese all’accampamento delle “camicie rosse” e la proclamazione dello stato d’emergenza erano inevitabili.
Ciò non toglie che il disagio sociale e politico espresso dal movimento a sostegno dell’ex premier Thaksin Shinawatra – costretto all’esilio dopo il golpe militare del settembre 2006 – permane.
Crescita a due velocità
«La crisi che sta vivendo la Thailandia – spiega Maurer – è davvero profonda, siccome risulta da una serie di problemi, mai risolti, accumulatisi nel tempo. Problemi che derivano principalmente da uno sviluppo a due velocità».
«La Thailandia ha vissuto una forte crescita. Lo sviluppo ha interessato però soltanto la capitale, alcune industrie e una parte della borghesia urbana. La maggior parte del paese è invece stata lasciata indietro», rammenta il direttore dell’istituto ginevrino.
Dagli anni ’90, le disuguaglianze sociali e le disparità regionali nell’ex Siam si sono accentuate. Malgrado la Thailandia sia riuscita a superare la crisi asiatica del 1998, le misure adottate dal governo non hanno fatto altro che allargare il fossato tra ricchi e poveri.
La questione reale
Una situazione complicata, resa ancor più difficile dal silenzio quasi totale del re Bhumibol Adulyadej. Venerato dalla stragrande maggioranza dei 62 milioni di thailandesi, il re non sembra in grado di fungere da paciere.
Ammalato e da diversi mesi ricoverato in ospedale, l’82enne Bhumibol ha in passato svolto un ruolo fondamentale quale garante dell’unità e della stabilità nazionale. Una figura essenziale, in un paese che ha vissuto oltre 30 colpi di Stato dall’introduzione della monarchia costituzionale nel 1932.
La questione della sua successione è delicata, sottolinea Jean-Luc Maurer. «Il suo unico figlio, Wajiralongkorn, non è affatto popolare e sembra non avere la stoffa per assumere il ruolo stabilizzante avuto dal padre. Se Bhumibol dovesse andarsene in un futuro prossimo, la Thailandia si troverebbe in una situazione estremamente grave».
Piattaforma regionale
Finora, i disordini non hanno fatto fuggire in massa gli operatori stranieri. «La crisi ha comunque inciso sugli affari e intaccato la fiducia degli investitori», riconosce Akapol Sorasuchart, presidente del Thailand Convention & Exhibition Bureau, questa settimana a Ginevra per presentare i vantaggi di Bangkok quale centro per i congressi internazionali.
Il settore turistico, responsabile del 6-7% del prodotto interno lordo della Thailandia, avrebbe perso secondo gli esperti circa due miliardi di franchi soltanto nelle ultime settimane.
Il ruolo di piattaforma regionale della Thailandia e della sua capitale non è comunque, per ora, rimesso in discussione. Numerose società straniere, tra cui diverse multinazionali svizzere, dirigono da Bangkok le loro attività nel Sud-est asiatico.
Impatto su tutta la regione
Se la situazione in Thailandia dovesse ulteriormente degradarsi, la crisi potrebbe diffondersi in tutta la regione.
«La Thailandia è sempre stata considerata un elemento di stabilità nell’Asia del sud est», conferma l’editore ginevrino Matthias Huber, viaggiatore e profondo conoscitore di questa zona del pianeta.
Membro dell’Associazione Svizzera-Birmania, Huber teme in particolare che il persistere della crisi in Thailandia e il ruolo cruciale svolto dai militari possa rafforzare la giunta al potere nella vicina Birmania.
La crisi thailandese, aggiunge da parte sua Jean-Luc Maurer, potrebbe poi riaprire le ferite in seno all’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN). «La Thailandia sta vivendo un contenzioso con la Cambogia per questioni legate ai confini, ciò che l’anno scorso ha dato luogo a scontri sporadici tra i due eserciti. L’ex Siam deve poi fare i conti con una forte ribellione islamica che ha legami con la Malesia, un altro paese che sta attraversando gravi difficoltà a livello politico».
«L’Indonesia, altro peso massimo dell’ASEAN – conclude Maurer – è così oggi il paese più democratico della regione, dopo 32 anni di dittatura e un decennio di difficile transizione».
Frédéric Burnand, Ginevra, swissinfo.ch
(traduzione e adattamento: Luigi Jorio)
14 marzo 2010: rispondendo all’appello dell’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, decine di migliaia di “camicie rosse” si riuniscono a Bangkok per chiedere le dimissioni del primo ministro Abhisit Vejjajiva. Il movimento è composto soprattutto da contadini ed emarginati urbani.
2 aprile: i manifestanti occupano il quartiere di Ratchaprasong, il cuore commerciale e turistico della capitale.
7 aprile: il governo proclama lo stato d’emergenza a Bangkok.
10 aprile: primi scontri violenti tra camicie rosse e forze dell’ordine. I morti sono 25, i feriti oltre 800.
22 aprile: cinque granate esplodono durante un faccia a faccia tra manifestanti pro e antigovernativi. Un morto e un’ottantina di feriti.
3 maggio: il primo ministro Abhisit propone una “road map” che prevede nuove elezioni per il 14 novembre in cambio della fine della protesta. I “rossi” accolgono favorevolmente l’iniziativa.
13 maggio: Abhisit annulla le elezioni anticipate siccome i manifestanti «non hanno evacuato la zona». L’esercito circonda il quartiere occupato dall’opposizione.
14-17 maggio: scene di guerriglia urbana a Bangkok. I manifestanti lanciano bombe molotov, petardi e sassi; i militari rispondono con gas lacrimogeni e pallottole. Bilancio: 39 morti e più di 300 feriti.
19 maggio: l’esercito fa irruzione nel campo delle camicie rosse. Nella capitale si registrano ancora morti e feriti, tra cui dei giornalisti stranieri, e diversi edifici sono dati alle fiamme. Alcuni leader del movimento antigovernativo si consegnano alle forze dell’ordine.
20 maggio: esteso di tre giorni il coprifuoco a Bangkok e in 23 provincie.
In Thailandia risiedono circa 6’500 svizzeri, secondo una stima dell’ambasciatrice elvetica a Bangkok, Christine Schraner Burgener.
Si tratta della comunità svizzera più importante dell’Asia; la maggior parte degli espatriati vive nella stazione balneare di Pattaya e sull’isola di Phuket.
Stando ai dati più recenti (fine 2007), il totale degli investimenti diretti svizzeri in Thailandia ammonta a 2,4 miliardi di franchi.
Le 150 ditte elvetiche presenti in Thailandia danno lavoro a circa 41’300 persone.
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