Uiguri in Svizzera, nonostante la Cina
Dopo otto anni di prigionia ingiustificata a Guantanamo, i due fratelli uiguri potranno iniziare una nuova vita in Svizzera. Ma quali conseguenze avrà la decisione del governo sulle relazioni Berna-Pechino? E per quale motivo la Cina si oppone al rilascio di questi detenuti?
Base militare di Guantanamo, sud-est dell’isola di Cuba: è in questo carcere statunitense di massima sicurezza che Bahtiyar e Arkin Mahnut hanno trascorso gli ultimi sette anni e mezzo della loro vita. Sono stati arrestati uno in Pakistan e l’altro in Afghanistan perché sospettati di aver collaborato con l’organizzazione terroristica al Qaida. Otto anni di carcere senza imputazione né condanna.
Dopo quattro anni, di cui due in isolamento, Bahtiyar e Arkin Mahnut sono stati dichiarati innocenti, ma hanno dovuto attendere il 3 febbraio 2010 prima di ritrovare la libertà. Dopo mesi di tira e molla, il Governo svizzero ha infatti deciso di accogliere la richiesta di asilo di questi ormai ex detenuti, malgrado le pressioni da parte della Cina che li considera tuttora dei «terroristi» e ne esige l’estradizione.
La triste storia di Bahtiyar e Arkin illustra alla perfezione le lacune del dispositivo carcerario e giudiziario di Guantanamo, che la Svizzera ha condannato a più riprese impegnandosi ad accogliere per ragioni umanitarie degli ex detenuti. «Sono ancora 200 gli uomini imprigionati nella base cubana», ha ricordato Alain Bovard giurista ed esperto di Guantanamo della Sezione svizzera di Amnesty International. E questo malgrado le promesse di Barack Obama di chiudere il carcere di massima sicurezza, istituito da Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
«Sono anni che Amnesty International si batte per difendere i diritti di Bahtiyar e Arkin e di altri ex detenuti di Guantanamo. Siamo quindi estremamente soddisfatti che il Consiglio federale abbia deciso di accogliere i due cittadini uiguri, anteponendo l’aspetto umanitario a quello economico o politico», ricorda Alain Bovard.
È stata questa infatti la giustificazione ufficiale rilasciata dalla ministra di giustizia e polizia Eveline Widmer-Schlumpf per spiegare il cambio di rotta del governo elvetico. Ma la posta in gioco per la Svizzera era sicuramente più alta e le reticenze mostrate negli ultimi mesi sollevano numerosi dubbi sulle reali intenzioni del Consiglio federale.
Tradizione umanitaria o calcolo politico?
Custode delle Convenzioni di Ginevra, e sostenitrice del rispetto del diritto internazionale, la Svizzera è stata tra i primi paesi a tendere la mano a Washington nel lungo cammino verso la chiusura di Guantanamo. Gli accordi presi sono chiari: la Svizzera si impegna ad accogliere detenuti che non rappresentano un rischio per la sicurezza pubblica, divide i costi con gli Stati Uniti e decide in modo autonomo, d’intento coi cantoni, chi e quando potrà ricevere asilo.
Respingere i cittadini uiguri avrebbe dunque significato voltare le spalle agli Stati Uniti di Obama e alla tradizione umanitaria elvetica, già duramente messa alla prova dal voto popolare contro l’edificazione di nuovi minareti. Un rischio non indifferente per la credibilità elvetica e l’immagine del paese all’estero. «Affermare che gli Stati Uniti avrebbero dovuto risolvere il problema da soli è un’ipocrisia. Guantanamo non sarebbe mai esistita senza la complicità degli Stati europei», sostiene Alain Bovard.
Opporsi alla Cina, tuttavia, non è stata una scelta semplice anche perché i due paesi stanno ancora negoziando un accordo bilaterale di libero scambio, dal quale Berna si attende importanti ricadute economiche.
Svizzera e Cina più distanti?
Come previsto, la reazione di Pechino non si è fatta attendere. Giovedì il ministro degli affari esteri ha ribadito che la decisione del Consiglio federale avrà «sicuramente delle conseguenze sui rapporti Svizzera-Cina». Al momento è però difficile valutare la portata di queste dichiarazioni, sottolinea Gérald Béroud, direttore e fondatore di SinOptic, servizi e studi del mondo cinese. «Bisognerebbe avere una sfera di cristallo, ma quello che è certo è che la Svizzera deve essere pronta ad assumersi le conseguenze delle sue scelte».
«Non credo che il Consiglio federale abbia preferito accogliere i due cittadini uiguri per compiacere gli Stati Uniti, ma piuttosto per questioni di politica interna. È stato un modo come un altro per mostrare maggiore autorità in alcuni dossier».
«Le relazioni tra Svizzera e Cina sono varie, complesse ed estremamente ricche. Non toccano soltanto l’economia, ma l’educazione, l’ambiente, o il rispetto dei diritti umani. In tutti questi campi, Berna ha un legame intenso con Pechino; un legame che potrebbe indebolirsi molto se il malumore del governo o di alcuni esponenti cinesi si concretizzasse».
Decenni di repressione
Attualmente in Svizzera vivono un’ottantina di cittadini uiguri, di cui 60 con lo statuto di rifugiati politici. Minoranza turcofona di fede musulmana, la popolazione uigura è originaria dello Xinjiang, o meglio del Turkestan Orientale, una terra ricca di gas e petrolio controllata dal governo cinese. I ripetuti tentativi di indipendenza degli uiguri sono stati repressi con violenza dalle autorità cinesi.
«La situazione degli uiguri non è molto diversa da quella dei tibetani, con l’unica aggravante che non possono contare su una personalità di spicco come il Dalai Lama», spiega Alain Bovard. «Lo Xinjiang è stato occupato dalla Cina negli anni Cinquanta e gli uiguri sono stati progressivamente deportati nell’est del paese e costretti a lavorare nelle fabbriche in condizioni disumane. Parallelamente, il governo ha incoraggiato lo spostamento di cinesi di origine han, offrendo loro posti di lavoro nello Xinjiang e provocando così un’impennata della disoccupazione tra gli uiguri».
Condizioni di estrema povertà e violenza confermate anche da Endili Memetkerim, presidente della comunita uigura in Svizzera: «La decisone del Governo è una piccola conquista per tutto il nostro popolo e faremo il possibile per aiutare queste persone a superare il trauma che hanno vissuto, a comprendere gli usi e i costumi elvetici e ad integrarsi in questo paese che li ha accolti».
Stefania Summermatter, swissinfo.ch
È una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese dal 1995.
La capitale è Urumqi.
Lo Xinjiang – che gli uiguri continuano a chiamare Turkestan orientale – occupa una superficie di 1’650’000 chilometri quadrati: un sesto del territorio cinese.
Nel sottosuolo sono custoditi un quarto del gas e del petrolio cinesi, e il 40% del carbone.
Lungo 5600 chilometri di frontiera esterna, lo Xinjiang confina con otto nazioni, di cui cinque a maggioranza musulmana.
La popolazione è di circa 21 milioni d’abitanti, di cui il 60% vive in campagna.
Percentualmente, la ripartizione etnica – stando a cifre ufficiali del 2004 – è ripartita in uiguri 45%, han (cinesi) 41%, cazachi 7% e hui (gruppo etnico riconosciuto nella Repubblica Popolare Cinese) 5%.
Gli uiguri sono di religione musulmana.
Lo uigur è la lingua ufficiale dello Xinjiang ed è una lingua turca.
1918: primo trattato di amicizia.
1950: la Svizzera è tra i primi paesi a riconoscere la Repubblica popolare cinese.
1974: primo accordo commerciale.
1980: joint venture tra il costruttore di ascensori elvetico Schindler e una ditta cinese.
1986: accordo per la protezione reciproca degli investimenti.
1989: accordo di collaborazione scientifica e tecnica.
1992: accordo sulla protezione dei brevetti.
1996: prima visita in Cina di un presidente della Confederazione (Jean-Pascal Delamuraz).
2002: apertura dello Swiss Business Hub a Shanghai
2004: protocollo d’intesa sul turismo.
2007: dichiarazione comune sulla protezione della proprietà intellettuale.
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