“Una partizione della Siria non è impossibile”
Mentre dietro le quinte si intensificano le attività per preparare il dopo Assad, segni di una capitolazione non sono finora tangibili sul terreno. Toccato al cuore del suo apparato di sicurezza, il regime siriano non ha detto la sua ultima parola, ritiene l’esperto Mohammad-Reza Djalili.
Professore emerito presso l’Istituto di studi internazionali e dello sviluppo di Ginevra, Mohammad-Reza Djalili teme che la Siria stia affondando definitivamente in guerra civile. In un’intervista a swissinfo.ch, il politologo illustra la complessa posta in gioco regionale e internazionale della crisi siriana, a quasi 16 mesi dall’inizio della rivolta contro il regime di Bashar al Assad.
swissinfo.ch: Dopo l’attentato che ha ucciso vari esponenti del regime la scorsa settimana a Damasco e l’estensione dei combattimenti nelle due più grandi città siriane, la resa di Bashar al Assad si avvicina?
Mohammad-Reza Djalili: L’attacco compiuto contro il cuore dell’apparato di sicurezza ha certamente avuto un effetto simbolico, ma non ha completamente decapitato il regime. Bashar al Assad ha i mezzi per riprendere il controllo, poiché tiene ancora in mano carte importanti. Alawiti, cristiani e parte della borghesia sunnita – comunità che costituisce il 35% della popolazione – continuano a sostenere il regime.
Alcuni militari hanno preso le distanze dal regime, ma l’esercito e l’apparato repressivo rimangono molto potenti e hanno mantenuto intatti i legami con il potere. Durante il crollo negli ultimi tempi di altri regimi arabi, l’esercito si era regolarmente dissociato dal potere. In Siria non si è avuto finora questo scenario, anche se le cose possono cambiare molto rapidamente.
Per quanto riguarda la minaccia delle forze al potere di utilizzare armi chimiche in caso di intervento straniero, ciò non significa necessariamente che il regime di Assad stia ormai giocando l’ultima carta. Questa minaccia rientra nella guerra di nervi combattuta da entrambe le parti.
swissinfo.ch: Lunedi l’Iraq ha registrato la più grande esplosione di violenza degli ultimi due anni (oltre 100 morti e 260 feriti nei quartieri sciiti di alcune grandi città). Va vista una connessione con gli eventi in Siria?
M-R.D.: Il contesto iracheno è di per sé molto delicato, poiché il governo di Nouri al-Maliki sta incontrando enormi difficoltà. Gli attacchi sono regolari e si verificavano già molto prima della crisi siriana. Ora è molto difficile sapere se questa esplosione di violenza va attribuita alle tensioni tra sciiti e sunniti in Iraq oppure se vi è un legame effettivo con gli eventi siriani.
swissinfo.ch: Secondo lei, esiste una minaccia di estensione del conflitto siriano agli Stati confinanti?
M-R.D.: Il rischio è reale, soprattutto per quanto riguarda il Libano, che si vede già confrontato ad un afflusso di decine di migliaia di profughi siriani sul suo territorio. I due paesi sono strettamente legati. La crisi siriana ha inevitabilmente ricadute anche in Libano. Speriamo però che non giunga a riaccendere il conflitto inter libanese e a scatenare una nuova guerra civile.
Altri paesi confinanti sono già ora toccati dalla crisi siriana. In particolare la Giordania, dove si ammassano molti rifugiati, o la Turchia, a causa della questione dei curdi che vivono al confine tra i due paesi.
swissinfo.ch: La Siria rischia di conoscere il destino che ha avuto anni fa il Libano, ossia di sprofondare per molti anni in una guerra civile o addirittura di implodere?
M-R.D.: Purtroppo non possiamo escludere questa ipotesi. Ci sono molte somiglianze tra i due paesi, in particolare per quanto riguarda la loro composizione etnica e religiosa. La situazione è estremamente complessa e dipenderà ovviamente dagli sviluppi sul terreno. Ma, affinché la Siria non subisca la stessa sorte del Libano, sarebbe necessario un profondo cambiamento nella leadership del paese.
Un altro scenario è possibile: Bashar al Assad e il suo entourage potrebbero rifugiarsi nelle regioni montuose popolate dagli alawiti, al fine di creare una entità separata dalla Siria o di utilizzare questa regione come base per riconquistare il potere. In questo caso, il regime attuale potrebbe essere interessato ad una rottura o una partizione della Siria.
swissinfo.ch: Ritiene quindi che sarà difficile evitare dei regolamenti di conti tra le varie comunità etniche e religiose anche dopo un’eventuale caduta del regime?
M-R.D.: La sfida sembra quasi insormontabile. Durante i primi dieci mesi di protesta, uno sbocco alla crisi sembrava possibile senza troppi scontri e violenze. Ora, purtroppo, questo scenario sembra molto meno realistico.
swissinfo.ch: Per quanto riguarda i rapporti internazionali, il conflitto siriano sta mostrando un nuovo equilibrio di forze tra paesi emergenti (Cina e Russia) e paesi occidentali?
M-R.D.: Sicuramente, il conflitto siriano riveste una dimensione globale. Sia i russi e i cinesi che i paesi occidentali stanno giocando le loro carte nella regione, ciò che provoca blocchi permanenti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. A questo va aggiunta una dimensione regionale, che interessa diversi paesi vicini, in particolare Libano, Turchia, Israele e Iraq.
L’Iran, che non ha un confine diretto con la Siria, è senza dubbio l’attore più importante a livello regionale e sostiene attivamente il regime di Damasco. Grazie ad un accordo stipulato già trent’anni fa con il padre di Bashar al Assad, l’Iran si è assicurato un accesso al Mediterraneo e non intende ora abbandonarlo.
swissinfo.ch: Vi è invece una volontà da parte dei paesi occidentali di indebolire la Siria, principale alleato dell’Iran nella regione?
M-R.D.: L’Iran costituisce effettivamente il perno dell’asse sciita, che comprende anche Iraq, Siria, Libano e Palestina. Se crolla il regime di Assad, si rompe nel contempo un tassello essenziale della politica regionale dell’Iran. A molti paesi non dispiacerebbe un passaggio del potere in Siria nelle mani della maggioranza sunnita: ciò permetterebbe di arginare l’espansionismo iraniano.
Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, oltre 19’000 persone sono morte dall’inizio della rivolta contro il regime di Bashar al Assad 16 mesi fa.
Il 18 luglio, un attacco suicida contro il quartier generale delle forze di sicurezza siriane ha provocato la morte di tre alti funzionari, tra cui il ministro della difesa e fratello del presidente Assad.
I ribelli hanno inoltre conquistato diversi quartieri di Damasco e Aleppo, prima che i carri armati ed elicotteri dell’esercito riescano a riprendere il controllo delle due città.
Cina e Russia hanno posto, per tre volte, il loro veto alle risoluzioni che condannano la repressione da parte del regime di Assad dei movimenti di protesta iniziati nel marzo 2011.
Le Nazioni Unite hanno deciso di prolungare di un mese le operazioni di monitoraggio in Siria (Misnus), che dovevano concludersi la settimana scorsa. Sono finora falliti tutti i tentativi dell’ONU di concordare un cessate il fuoco e un piano di pace.
Finora quasi 150’000 siriani si sono rifugiati nei paesi vicini per sfuggire ai combattimenti in corso tra l’esercito di Damasco e le forze ribelli. È quanto ha reso noto l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati (UNHCR).
Nel corso dell’ultima settimana, l’UNHCR ha individuato circa 30’000 nuovi rifugiati. Solo lunedì scorso, quasi 6’000 siriani sono fuggiti in Libano.
L’UNHCR sta attualmente costruendo un campo per accogliere fino a 120’000 rifugiati siriani in Giordania.
Traduzione di Armando Mombelli
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