Una tomba e un nome per le vittime della shoah

Catalogare le fosse comuni e identificare centinaia di migliaia di ebrei e nomadi fucilati dai nazisti nell'Europa dell'Est: per Patrick Desbois, prete cattolico, è una missione dal 2004. Intervista.
«Fuori dei campi di concentramento era anche peggio»: questa frase Patrick Desbois l’ha sentita dalla bocca di suo nonno, un soldato francese deportato in Ucraina, e non l’ha mai dimenticata. Da adulto, l’ha spinto ad andare alla ricerca di testimoni dei massacri perpetrati dai nazisti tra il 1941 e il 1944 nei villaggi dell’Ucraina, della Polonia, della Russia e della Bielorussia.
Desbois ha raccolto testimonianze terribili, come questa: «Un giorno mia madre è rientrata dicendo: Ragazzi, vestitevi, svelti. Andiamo a vedere l’esecuzione degli ebrei».
Di passaggio a Ginevra per una conferenza di presentazione della sua associazione Yahad In Unum, padre Desbois ha spiegato la necessità di documentare il meglio possibile questa «shoah par balles» (shoah perpetrata con le pallottole), un aspetto spesso poco conosciuto del genocidio nazista. Settant’anni dopo i fatti, i testimoni di queste esecuzioni – spesso pubbliche – si fanno sempre più rari.
swissinfo.ch: Lei e i suoi collaboratori siete confrontati quasi quotidianamente con storie orribili. Come fate a reggere?
Patrick Desbois: Incassiamo più o meno bene. Mi preoccupo affinché i miei collaboratori non crollino. Per questo consiglio loro di chiedere aiuto a uno psicologo, così come faccio io.
swissinfo.ch: La sua fede ha vacillato di fronte a questa manifestazione del Male?
P. D.: Evito, se posso, di teorizzare. Vengo da una famiglia di gente semplice. Quando i tedeschi sono arrivati, i miei genitori si sono battuti, hanno nascosto della gente. Cercando di ritrovare e identificare le persone massacrate tra il 1941 e il 1944 nei villaggi dell’Unione sovietica occupati dai tedeschi, io – ed altri con me – continuo questa battaglia.
Rifiuto le risposte consolatorie, perché spesso quelli che consolano non agiscono.
swissinfo.ch: Perché ritiene che sia così importante identificare le vittime e dare loro sepoltura?
P. D.: In effetti, uno degli obiettivi della nostra associazione è di ritrovare le fosse comuni per seppellire le vittime come se fossero esseri umani e non animali. Dare degna sepoltura alle vittime di un genocidio significa accettare di coabitare con loro. L’Europa può diventare un motore per il XXI secolo. Deve essere preservata dai genocidi che hanno segnato la storia del secolo scorso.
Ci stiamo muovendo affinché la gente si appropri della memoria di quello che è successo. In Ucraina, ad esempio, abbiamo organizzato un’esposizione itinerante e gli insegnanti di storia riceveranno un libro con le testimonianze che abbiamo raccolto.
swissinfo.ch: Da un punto di vista storico, qual è l’apporto delle vostre ricerche?
P. D.: Forniamo nuove fonti grazie alle testimonianze delle persone che vivono in prossimità delle fosse comuni e di coloro che sono stati incaricati di trasportare i corpi, scavare le fosse, ecc. È la shoah vista dal basso, dai servitori, dai cuochi, dai portatori d’acqua… tutti testimoni a cui nessuno ha mai chiesto niente.
Ma queste persone vogliono parlare. Così come ha fatto un’anziana ucraina che, per la prima volta, ha raccontato pubblicamente nel suo villaggio quello che aveva vissuto. Ogni volta che c’era un’esecuzione veniva obbligata a entrare nelle fosse per sistemare i corpi. Un giorno fu costretta ad assistere all’esecuzione di tutti gli allievi ebrei della sua classe e si ritrovò a camminare sui corpi delle sue compagne.
La maggior parte di questi testimoni sono ancora traumatizzati. Durante i nostri colloqui ci sono persone che scoppiano a piangere, altre che hanno delle aritmie cardiache, altre ancora che restano impassibili.
Chi lavora su altri genocidi, ad esempio in Ruanda o in Cambogia, ci ha chiesto di aiutarli a fare quello che stiamo facendo noi.
swissinfo.ch: Quali sono le prime conseguenze delle vostre ricerche?
P. D.: Nell’Europa dell’Est lavoriamo sempre più spesso con storici locali. La nostra iniziativa mira a rinforzare gli scambi tra gli storici e i cittadini della regione con il resto del mondo.
Si sta costituendo una rete. Organizziamo dei convegni alla Sorbona che permettono a giovani ricercatori spesso completamente isolati e sprovvisti di mezzi di entrare in contatto tra di loro.
swissinfo.ch: Eppure in Francia ci sono degli storici che hanno criticato il vostro approccio, soprattutto la definizione «shoah par balles» (shoah perpetrata con le pallottole)…
P. D.: L’espressione è stata coniata da Henri Tinq, un giornalista di Le Monde. Poi l’hanno ripresa in molti.
Chiama in causa gli autori delle stragi. Certo, c’erano un’ideologia, il fascismo, Hitler. Ma questo non cancella la responsabilità dei giovani tedeschi degli Einsatzgruppen che uccidevano in modo metodico, anche i bambini.
È la principale associazione che svolge ricerca storica sulle esecuzioni di massa che hanno fatto un milione e mezzo di vittime – ebrei e nomadi – tra il 1941 e il 1944.
Yahad In Unum ha individuato centinaia di fosse comuni e raccolto le testimonianze di più di 1850 persone.
A inizio novembre 2011, l’associazione ha presentato le sue attività in una conferenza pubblica a Ginevra. La manifestazione ha ottenuto il sostegno del ministro della difesa svizzero Ueli Maurer, dei membri del consiglio municipale di Ginevra, del vescovo della diocesi di Losanna-Ginevra-Friburgo e dell’imam della Grande Moschea di Ginevra.
Tra il 1941 e il 1944, ai tempi dell’invasione tedesca, nell’ex Unione sovietica sono stati massacrati un milione e mezzo di ebrei.
Due anni e mezzo sono bastati ai nazisti per uccidere praticamente tutti gli ebrei della regione. Fino a poco tempo fa, questo capitolo della Shoah era quasi totalmente ignorato.
Poiché nelle regioni in questione la rete ferroviaria non permetteva di trasportare con facilità gli ebrei verso i campi di concentramento, i nazisti organizzarono delle unità mobili d’esecuzione, i famigerati Einsatzgruppen, che rastrellavano gli ebrei e li ammazzavano nei villaggi in cui vivevano, sotto gli occhi degli altri abitanti.
Nel 2004, il sacerdote cattolico francese Patrick Desbois ha dato il via ad uno studio approfondito di questo aspetto del genocidio.
Traduzione, Doris Lucini

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