«Per Fidel, il Che aveva molto più valore da morto che da vivo»
50 anni fa Che Guevara è stato giustiziato in Bolivia. Un evento che segna la nascita del più grande mito rivoluzionario del XX secolo. L'ex generale Gary Prado, che ha arrestato il "comandante" nell'ottobre del 1967, ricorda quella caccia all'uomo. Intervista.
L’8 ottobre 1967, ai piedi delle Ande boliviane, il capitano Gary Prado, che guidava la compagnia B del reggimento Manchego, arrestò Che Guevara. Rinchiuse il guerrigliero argentino che si era ferito a una gamba nella scuola del paesino più vicino, La Higuera.
Prado è una delle ultime persone che videro il rivoluzionario in vita e scambiarono alcune parole con lui. Il Che è stato ucciso il giorno dopo la sua cattura per mano di un sergente dell’esercito che agiva agli ordini del presidente boliviano. In quel momento, Prado e i suoi soldati stavano setacciando la zona alla ricerca dei compagni del Che nascosti nei paraggi.
Chi è Gary Prado? Un esponente della sinistra progressista che si oppose alla dittatura militare nel suo paese prima di assumersi elevati incarichi diplomatici come ambasciatore in Gran Bretagna e in Messico. Nel 2009 è stato accusato dal presidente boliviano Evo Morales, un grande ammiratore del rivoluzionario, di aver ucciso Che Guevara. Prado respinge ancora oggi con forza queste accuse.
Ma Morales non molla la presa accusando Prado di «terrorismo e rivolta armata». Prado sarebbe coinvolto in un complotto di assassinio contro Morales stesso. Un puro atto di vendetta, ritiene Prado, che dal 1981 è costretto in sedia a rotelle a causa di un colpo di pistola accidentale durante un’operazione contro occupanti di un impianto petrolifero. Oggi vive a Santa Cruz de la Sierra in Bolivia.
swissinfo.ch: Ci può raccontare qualcosa della caccia al Che che la portò alle luci della ribalta internazionale nel 1967?
Gary Prado: È vero che l’arresto di Che Guevara mi ha reso noto internazionalmente. Ma non è stato un fattore che ha influenzato il resto della mia vita. Sono convinto di aver fatto cose ben più importanti della cattura del Che. Ho una carriera militare eccellente alle spalle, sono conosciuto e rispettato per il mio contributo al ritorno alla democrazia in Bolivia e per altre attività pubbliche. Dopo 30 anni di servizi leali mi sono ritirato dall’esercito.
swissinfo.ch: Ma ha anche vissuto con un peso sulle spalle visto che dopo la sua morte, il Che è diventato un vero e proprio mito.
G. P.: Quando è stato catturato, il Che mi ha detto: «Non uccidermi, per te valgo più da vivo che da morto». Ma la sua morte ha avuto l’effetto contrario. Per Fidel Castro, Che Guevara aveva infatti molto più valore da morto che da vivo. Facendolo eliminare, Fidel ha potuto risolvere un problema delicato e creare un mito sulla figura di Che Guevara. In questo modo, è stato possibile mantenere il sistema in vita.
swissinfo.ch: Secondo Lei, gli «amici» cubani del Che l’hanno spedito in Bolivia per poi, in un certo modo, liquidarlo?
G. P.: Sì, Che Guevara è stato sacrificato sull’altare del castrismo. Un giorno anche Cuba dovrà ammettere che l’ha mandato in Bolivia solo per disfarsi di lui. Perché le posizioni del Che non corrispondevano a quelle che Cuba aveva assunto, sotto pressione dell’Unione sovietica. Il fatto di averlo inviato in Bolivia, senza nessun tipo di sostegno e chiudendo ogni canale di comunicazione, era come una condanna a morte. Per questo il titolo del mio libro è «La guerriglia sacrificata».
swissinfo.ch: Che Guevara e i suoi compagni erano deboli o ammalati e completamente abbandonati a loro stessi. L’arsenale dell’esercito boliviano messo in piedi per la cattura non era eccessivo?
G. P.: Durante l’operazione, che è durata nove mesi, sono stati impiegati meno di 2’000 uomini su una superficie di 40’000 chilometri quadrati (circa la superficie della Svizzera, ndr). La lotta contro la guerriglia si svolse solo sul quattro percento del territorio boliviano. Fu una mobilitazione organizzata e in nessun momento un spiegamento smisurato di truppe con presenza eccessiva dei media. L’8 ottobre 1967 ci trovammo di fronte i guerriglieri del Che e li battemmo.
«Quando l’ho arrestato, Che Guevara era in uno stato pietoso. Avevo l’impressione che il suo destino fosse già segnato»
swissinfo.ch: Quando trovò Che Guevara, sapeva già cosa sarebbe successo dopo?
G. P.: No, il Che era una delle figure della Rivoluzione cubana e non ancora il mito che è poi diventato. Per me, allora, la cosa più importante era risolvere i problemi legati alla guerriglia e trovare la via verso la pace.
Quando l’ho arrestato, Che Guevara era in uno stato pietoso. Avevo l’impressione che il suo destino fosse già segnato. Non aveva alternative: non poteva andare da nessuna parte, nessun paese l’avrebbe accolto. Sarebbe diventato un rifugiato politico oppure un testimone troppo importante. Per questi motivi aveva deciso di andare fino in fondo e di continuare la lotta anche con sé stesso: tra l’istinto per la sopravvivenza e il sacrificio per quello in cui credeva e a cui aveva dedicato tutta la vita.
swissinfo.ch: Ha detto a Che Guevara che sarebbe stato portato davanti a un tribunale militare. Ma il giorno seguente fu giustiziato in base alla legge marziale, senza processo.
G. P.: È stata una decisione politica presa ai livelli più alti. Il presidente boliviano di allora, René Barrientos, e il capo delle forze armate, vollero risolvere così il problema per sempre.
Occorre ricordare che tre o quattro anni prima, all’inizio della Rivoluzione cubana, il regime di Fidel Castro fece giustiziare tutti i suoi avversari. Nella fortezza cubana La Cabaña, che era sotto il comando del Che, sono stati giustiziati quasi 400 prigionieri. 50 anni fa, i diritti dei prigionieri di guerra non erano riconosciuti dalla guerriglia, e nemmeno i diritti umani erano rispettati. Erano altri tempi: non si possono usare gli stessi parametri di oggi.
Che Guevara e la Svizzera
1963, L’Avana, Cuba: il fotografo svizzero René Burri scatta diversi ritratti di Che Guevara. Un’immagine dell’allora ministro dell’industria, con un sigaro in bocca, garantì al 28enne Burri un posto nell’Olimpo della fotografia del XX secolo. La foto segna l’inizio del mito del Che come rivoluzionario e, dopo la sua uccisione nel 1967, diventa l’icona incontrastata della lotta contro l’ingiustizia.
1964, Ginevra: il sociologo svizzero Jean Ziegler, allora giovane studente, è l’autista privato del Che durante 12 giorni mentre partecipa a una conferenza sullo zucchero in veste di ministro cubano dell’industria. Ziegler guida una Mini-Morris. Più tardi descriverà Che Guevara come un rivoluzionario freddo e inavvicinabile.
1994: il regista svizzero Richard Dindo realizza il documentario «Ernesto ‘Che’ Guevara, il diario della Bolivia». Il regista multi premiato si recò in Bolivia sulle tracce dell’ultima missione disperata e senza speranza del rivoluzionario argentino.
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Il Che vive!… in Svizzera
Traduzione dal francese di Michela Montalbetti
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