Contro il terrorismo, l’Occidente fa parlare le armi, senza la Svizzera
Sempre più Stati occidentali prendono parte alla lotta armata contro lo Stato islamico con bombardamenti aerei o forniture belliche ai suoi avversari. Da parte sua, la Svizzera si appella alla neutralità, limita la sua azione all’aiuto umanitario e interviene nel contesto delle organizzazioni internazionali. Un modo d’agire corretto, ritiene un esperto del mondo islamico.
Lo Stato islamico (ISIS) non è una minaccia solo per i paesi della regione, Iraq e Siria in primis, ma anche per gli Stati occidentali, ha affermato il presidente statunitense Barack Obama alla fine del vertice della Nato svoltosi in Galles il 4 e 5 settembre. Gli Stati Uniti, che da alcune settimane colpiscono dal cielo le milizie jihadiste in Iraq, vogliono dar vita a una coalizione internazionale per lottare contro l’ISIS.
Anche il premier britannico David Cameron sta valutando la possibilità di raid aerei. A inizio settembre, il governo tedesco ha dal canto suo dato il via libera alla fornitura di razzi anticarro, mitragliatrici, fucili d’assalto, granate, veicoli e munizioni ai peshmerga curdi, che nel nord dell’Iraq cercano di contrastare l’avanzata dell’ISIS. È la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che Berlino invia armi in una zona di guerra.
Piano Obama
Mercoledì 10 settembre il presidente statunitense Barack Obama presenterà in un discorso alla nazione il suo piano per combattere le forze jihadiste in Iraq e in Siria.
Washington sta cercando di formare una vasta alleanza internazionale per venire a capo dello Stato islamico.
Stando a quanto riporta il New York Times, i tempi dell’offensiva previsti non sono brevi: per indebolire le forze dell’ISIS serviranno almeno 36 mesi di raid aerei e di operazioni sul terreno. Le truppe sul campo saranno solo irachene, curde e siriane. Gli USA, infatti, non intendono inviare soldati.
E la Svizzera in tutto ciò? Berna ha condannatoCollegamento esterno «fermamente le gravi e sistematiche discriminazioni cui sono sottoposte le minoranze religiose da parte dei miliziani dello ‘Stato islamico’». Tuttavia è escluso che la Confederazione fornisca armi. «La legge sul materiale bellico vieta il commercio d’armi con paesi che si trovano in una situazione di conflitto», ricorda il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), interpellato da swissinfo.ch.
Scegliere tra peste e colera
Eticamente le due posizioni – quella di Berna e quella di Berlino – sono discutibili. Chi fornisce armi, deve assumersene le conseguenze. Ciò vale però anche per chi ha scelto di non implicarsi, ha affermato la cancelliera tedesca Angela Merkel per giustificare le forniture belliche. Bisogna appoggiare i curdi nel nord dell’Iraq fornendo armi che permettono loro di opporsi a terroristi ben equipaggiati, oppure si deve restare saldamente attaccati al principio che i conflitti vanno risolti politicamente e non militarmente?
«Vi è un senso di impotenza generale nella scelta della strategia. Ci troviamo in una situazione che non si era mai presentata prima», osserva il professore Reinhard Schulze. Questo esperto di Islam con radici tedesche insegna alle università di Berna e Friburgo. «Da un punto di vista morale, si dovrebbe fare tutto il possibile per fermare l’azione omicida dell’ISIS. Bisogna però anche essere coscienti delle conseguenze che un intervento militare potrebbe avere».
La Germania intende fornire armi esclusivamente ai peshmerga e non al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, impiantato nel sud-est della Turchia). Ciò ha sollevato la questione se questi ultimi siano i curdi cattivi. «È proprio questo il problema», continua Schulze. «Bisogna cercare di tessere alleanze nella regione con partner affidabili. Identificare dei partner che in qualche modo condividono alcune visioni politiche degli Stati occidentali non è però così facile».
Su come sia possibile contrastare l’ISIS senza ricorrere alle armi, Schulze non ha nessuna risposta. Si tratta in un certo senso di scegliere tra la peste e il colera. Un intervento militare rappresenterebbe anche «un successo di propaganda per l’ISIS, poiché potrebbe ancor più presentarsi come l’unica vera forza islamica che si erge contro l’Occidente».
A situazione eccezionale, mezzi eccezionali
Anche la cancelliera tedesca si è detta cosciente del fatto che il conflitto non può essere risolto in maniera permanente grazie alle armi. La chiave per una pacificazione dell’Iraq è da ricercare in un processo politico che coinvolga tutti gli strati della popolazione, ha affermato. Vi sono però situazioni eccezionali, «dove solo dei mezzi militari aiutano ad avere di nuovo un’opzione politica».
Che altri Stati si occupino della lotta armata contro l’ISIS, è anche nell’interesse della Svizzera. Le autorità elvetiche hanno constatato un aumento di viaggi nelle zone controllate dai jihadisti in Siria e in Iraq. Stando al DFAE, non è escluso che «dei jihadisti che hanno legami con la Svizzera possano essere implicati nell’organizzazione e nell’esecuzione di attentati anche al di fuori delle zone di conflitto». Secondo il Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC), circa 40 jihadisti provenienti dalla Svizzera si troverebbero in Somalia, Afghanistan, Yemen, Iraq e Siria. In questo momento la destinazione preferita è la Siria. Al loro ritorno, alcuni jihadisti potrebbero rappresentare un potenziale pericolo. La Svizzera, scrive ancora il DFAE, ha messo la questione all’ordine del giorno dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), presieduta quest’anno proprio dalla Confederazione.
Inoltre, Berna ha appoggiato l’organizzazione di una sessione speciale del Consiglio dei diritti umani di Ginevra. L’alto commissariato per i diritti umani ha ricevuto il mandato di indagare sui crimini commessi dall’ISIS.
C’è solo da sperare e da attendere?
Che l’ISIS si faccia impressionare da questi provvedimenti è probabilmente illusorio. In ogni caso, Obama, Cameron, Merkel & Co. ne dubitano. Indirizzandosi a coloro che chiedono che sia l’ONU a trovare una soluzione, la cancelliera tedesca ha dichiarato: «Possiamo aspettare e sperare che siano altri ad affrontare questo problema impellente? No, ciò non corrisponde alla nostra idea di responsabilità in questa situazione».
L’aiuto svizzero in Iraq e in Siria
In Iraq, la Svizzera è partner di organizzazioni già attive in loco (Comitato internazionale della Croce Rossa, Save The Children Svizzera e Consiglio norvegese per i rifugiati) e non interviene direttamente. Quest’anno ha contribuito finora con 8,6 milioni di franchi.
Più consistente l’aiuto umanitario in Siria: da marzo 2011, la Direzione dello sviluppo e della cooperazione ha stanziato 85 milioni di franchi a favore delle vittime.
E qual è l’idea di responsabilità della Svizzera? Uno dei principi fondamentali della sua politica estera è la neutralità. Ciò significa che uno Stato non può rimanere coinvolto in un conflitto armato con altri Stati. Un argomento sufficiente per lasciare gli altri soli a fronteggiare il terrorismo di matrice islamica?
«Non credo che sia un pretesto, se la Svizzera non partecipa al sostegno militare dei curdi, dei governi iracheno oppure addirittura siriano», afferma Reinhard Schulze, alludendo al fatto che anche il regime di Bashar El Assad è in prima linea contro i miliziani dell’ISIS.
«L’Occidente si è messo lui stesso fuori gioco, reagendo in modo sbagliato alla Primavera araba, in particolare in Siria», osserva Schulze. Si è lasciato sfuggire l’occasione di sostenere misure strutturali che avrebbero portato a una stabilizzazione o addirittura a una caduta del regime siriano. «Ciò ha completamente deteriorato lo status morale dell’Occidente agli occhi del mondo arabo, soprattutto dopo gli attacchi con il gas a Damasco».
Una via d’uscita al caos potrebbe essere la dissoluzione dei vecchi confini in Siria e in Iraq. Al posto degli attuali Stati nazionali, dovrebbero essere istituite nuove strutture, che potrebbero portare a una maggiore autonomia in certe regioni. «Potrei immaginare, ad esempio, uno Stato sunnita nella zona iracheno-siriana, dove le élite locali e le tribù possano resistere contro il dominio di 40’000 uomini dell’ISIS, che rappresentano appena lo 0,5% della popolazione».
La diplomazia internazionale, molto attaccata al principio dell’inviolabilità delle frontiere, è però ancora ben lontana da simili visioni.
E non sarà il DFAE a contraddirlo: «Conformemente al diritto internazionale – scrive – la sovranità territoriale e l’integrità devono essere rispettate».
(traduzione di Daniele Mariani)
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