Cosa è una politica estera femminista?
Vent'anni fa, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che prevede il coinvolgimento delle donne nella prevenzione dei conflitti, nei processi di pace e nella politica di sicurezza. La risoluzione 1325 ha permesso di fare progressi in materia di politica estera femminista, ma alcuni esperti criticano il fatto che l'inclusione delle donne resti ancora una postilla della diplomazia.
Durante i negoziati di pace in Colombia, degli attivisti hanno utilizzato la risoluzione 1325 per obbligare il governo e le FARC a includere delle donne nelle trattativeCollegamento esterno. L’accordo raggiunto nel 2016 ha tenuto conto anche della prospettiva di genere.
Benché ci sia malcontento in Colombia riguardo all’implementazione dell’accordo di pace, il movimento femminista continua a battersi per il rispetto dell’intesa, che si concentra sul miglioramento delle condizioni di vita delle donne. Secondo uno studio realizzato nel 2015Collegamento esterno, la probabilità che la pace duri almeno 15 anni aumenta del 35% se le donne sono coinvolte nel processo.
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“La risoluzione 1325 è stata lanciata dalle donne dei Paesi del sud”, spiega Leandra BiasCollegamento esterno della fondazione svizzera per la pace Swisspeace. “Denunciavano il fatto che le loro preoccupazioni non fossero tenute in considerazione nella politica di sicurezza”.
Il loro impegno ha portato i propri frutti: il 31 ottobre 2000, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato all’unanimità la risoluzione 1325 “Donne, pace e sicurezza”, vincolante nel diritto internazionale. Con questo documento, il Consiglio introduce un pilastro importante per la politica estera femminista.
Il 17 settembre, una conferenza ha luogo a Berna per celebrare i 25 anni della Conferenza mondiale di Pechino sulle donne, che ha avuto un ruolo determinante nell’elaborazione della risoluzione “Donne, pace e sicurezza”, che festeggia 20 anni il 31 ottobre.
“Una politica estera femminista garantisce che tutti e tutte possano avere una vita degna, poiché solo quando questo accade si può ottenere una pace reale che garantisce una situazione stabile e non violenta”, commenta Leandra Bias. Ciò comporta l’inclusione delle minoranze, la lotta contro la povertà e l’accesso a salute e educazione per tutti.
Cos’è una politica estera femminista?
Il termine “politica estera femminista” sembra essere molto ampio.
“Quando ho sentito parlare per la prima volta di ‘politica estera femminista’, sono rimasta scioccata. Facendo delle ricerche, ho poi scoperto che si tratta della rappresentanza femminile nella politica estera e nella promozione della pace”, racconta Yvette Esterman, deputata dell’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice) e membro della commissione della politica estera del Consiglio nazionale (Camera bassa). “Ritengo il termine inadatto. Dovremmo chiamarla ‘politica estera umana’”.
“Il termine femminista applicato alla politica estera non è assolutamente inappropriato”, dice dal canto suo Claudia Friedl, deputata socialista e membro della stessa commissione. “Si tratta dell’integrazione dei diritti umani di donne e ragazze negli obiettivi della politica estera di un Paese”, commenta.
La deputata ritiene che ci sia uno stretto legame tra la parità dei sessi, la difesa dei diritti umani, lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia di pace e sicurezza. “Sono convinta che una politica estera di successo può esserlo solo se viene adottata una prospettiva coerente sulle questioni di genere”, afferma Claudia Friedl.
Anche Yvette Estermann pensa che la pace sia più duratura quando è raggiunta con la partecipazione femminile. “Le donne agiscono in modo più umano, riflettono più sull’avvenire e sulle conseguenze. È dunque più che giusto integrarle nei negoziati e nelle missioni di pace”.
Leandra Bias aggiunge: “Una pace non può essere stabile e duratura se è negoziata solo coinvolgendo le persone che hanno agito con violenza. Necessita anche l’inclusione di attori civili che hanno cercato una via pacifica e di conciliazione. E questi, spesso, sono donne.”
Implementare la risoluzione
“Sottoscrivere una risoluzione è una cosa, implementarla un’altra”, sottolinea Yvette Estermann. Sono necessarie persone che sappiano metterci l’anima.
“Benché sia importante che il Consiglio di sicurezza continui a sostenere la causa delle donne, della pace e della sicurezza, quello di cui abbiamo soprattutto bisogno sono fatti concreti, non solo parole”, dichiara Marissa Conway, cofondatrice del Centro per una politica estera femminista (CFFP). La risoluzione è stata adottata 20 anni fa, ma le donne continuano ad essere integrate nei negoziati di pace solo a posteriori, constata.
Secondo lei, “il fatto che delle personalità politiche autoritarie come il presidente statunitense Donald Trump denigrino le istituzioni multilaterali” rende ancora più urgente la necessità di creare un quadro chiaro per la politica estera femminista, al fine di costruire delle relazioni solide tra Stati e comunità per la protezione dei diritti umani.
“Il modo migliore per assicurare una pace duratura nel mondo è di disporre di un quadro di riferimento per la politica estera femminista. Questo permette di mettere i diritti delle donne e delle minoranze al centro di tutte le decisioni politiche”, sottolinea Conway.
Successo e critiche
Leandra Bias ricorda che la risoluzione ha permesso di riconoscere la violenza sessuale (contro le donne e, sempre di più, gli uomini) come uno strumento di guerra e di condannarla a livello internazionale.
Tuttavia, Conway critica l’implementazione della risoluzione. Si rammarica del fatto che i Paesi del Nord la considerino quasi esclusivamente come una risoluzione di politica estera. “Questo rafforza l’idea che ci siano donne da salvare solo nei Paesi del sud del mondo. Consolida inoltre l’immagine coloniale: le donne nere sono salvate da un uomo bianco perché i neri sono più brutali”. Anche l’idea che il problema della violenza sessuale non tocchi la Svizzera si rinforza.
Yvette Estermann non la vede così. “Nell’Europa centrale, le donne sono sufficientemente coinvolte in tutti i processi. Possiamo votare ed essere elette, possiamo assumere cariche dirigenziali, possiamo frequentare le scuole”, dice la deputata.
“Bisogna fare una distinzione chiara tra queste donne e quelle che nel mondo ancora non possono o non hanno il diritto di fare tutto questo. Ci sono sicuramente enormi lacune da colmare e lo stiamo facendo.”
Come si comporta la Svizzera?
La Confederazione ha lanciato diversi piani di azione riguardo alla risoluzione “Donne, pace, sicurezza”. Il più recente prevede di incrementare la presenza di donne nei team di negoziatori e di inviare più mediatrici elvetiche nei contesti di conflitto. Anche la presenza di donne nell’esercito, nella polizia, nella giustizia militare e nei settori della politica di sicurezza e delle operazioni di pace dovrebbe essere rafforzata.
Leandra Bias coordina un progettoCollegamento esterno della Piattaforma svizzera per la promozione della pace KOFF, il cui obiettivo è garantire che l’esperienza e le competenze della società civile siano prese in considerazione nell’implementazione del piano nazionale per la risoluzione 1325.
Nel 1956, la Svizzera è stato l’ultimo Paese europeo ad aprire il Dipartimento degli esteri alle donne. Solo negli anni recenti la proporzione femminile nella politica estera è aumentata.
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Donne alla conquista della politica estera svizzera
Claudia Freidl ritiene che l’implementazione elvetica della risoluzione sia “parzialmente buona”. Per esempio, la Confederazione si è impegnata per l’inclusione delle donne nei negoziati di pace per la Siria. “È un inizio, sicuramente importante, ma purtroppo è ancora poco”. La deputata critica anche una certa incoerenza della politica: “La promozione della pace e la mediazione nei conflitti poco si adattano con le esportazioni di armi”.
Yvette Estermann dal canto suo si rallegra del 20% di donne schierate dalla Confederazione nella sua missione di pace in Kosovo, benché le donne rappresentino solo l’1% in seno all’esercito. “La Svizzera ha fatto bene i suoi compiti”, dice.
Anche se la Svizzera può essere criticata nell’ambito della sua “politica estera femminista”, sotto un aspetto è pioniera: Il dipartimento degli affari esteri e la fondazione Swisspeace collaborano per l’implementazione della risoluzione dell’ONU. Questo significa che la società civile è direttamente ed equamente coinvolta. Un approccio che è proprio quello di una politica estera femminista secondo la risoluzione. Il dipartimento degli esteri ha anche fornito supporto finanziario per il “rapporto ombra” della ONG. Si potrebbe quasi dire che abbia pagato per essere criticato.
traduzione dal tedesco, Zeno Zoccatelli
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