«I problemi sono lungi dall’essere risolti nel Mali»
Didier Berberat, nuovo rappresentante speciale della Svizzera nel Sahel, si esprime sulla sua prima missione in Mali, che è coincisa con l’uccisione di due giornalisti francesi a Kidal. Il parlamentare spiega che l’impegno di Berna nel dossier suscita anche critiche nel paese africano.
Nel Comitato internazionale di valutazione e controllo, istituito per affrontare la crisi del Mali, la Svizzera è ora rappresentata da un parlamentare. In ottobre il governo federale ha scelto il senatore Didier Berberat per succedere all’ambasciatore Gérard Stoudmann. Tra il 3 e il 10 novembre, Berberat si è recato nel Burkina Faso e nel Mali, dove la Svizzera prosegue la sua opera di mediazione.
swissinfo.ch: L’uccisione di due giornalisti francesi di Radio France International a Kidal il 2 novembre scorso ha mostrato che il nord del Mali non è ancora pacificato. Si può davvero lavorare per la pace in un contesto così esplosivo?
Didier Berberat: Il tragico avvenimento è stato ovviamente affrontato nelle discussioni che ho avuto con i ministri e i responsabili politici che ho incontrato durante il mio viaggio nel Burkina Faso e in Mali. Tutti sono consapevoli del fatto che i problemi sono lungi dall’essere risolti. Ci vorrà del tempo per risolvere la crisi.
La Svizzera lavora appunto per cercare una soluzione duratura alla crisi maliana. Vigila affinché le questioni di fondo siano affrontate, in modo che simili eventi drammatici non si ripetano. In questo contesto è anche indispensabile migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali, offrire un migliore accesso alle cure mediche e alla formazione e anche migliorare le vie di comunicazione.
Nato il 1° dicembre 1956 a La Chaux-de-Fonds, nel canton Neuchâtel, Didier Berberat è avvocato e da 18 anni siede nel parlamento svizzero. È membro del Partito socialista.
Attualmente presiede la Commissione dell’ambiente, della pianificazione del territorio e dell’energia del Consiglio degli Stati (Camera dei cantoni), come pure la delegazione svizzera presso l’AELS e il Parlamento europeo.
Fa parte anche dell’Assemblea parlamentare della francofonia. Di recente il Dipartimento federale degli affari esteri lo ha scelto come inviato speciale della Svizzera nel Sahel, un incarico che svolge a tempo parziale.
swissinfo.ch: Quale può essere concretamente l’utilità della sua missione?
D. B.: Il mio lavoro consiste essenzialmente nel discutere tali questioni in seno al Comitato internazionale di valutazione e controllo dell’accordo firmato il 18 giugno a Ouagadougou, accordo che ha confermato il cessate il fuoco tra i belligeranti e che propone un piano per uscire dalla crisi.
La Svizzera è presente da oltre 40 anni nella regione, ha allacciato rapporti di amicizia e di cooperazione molto stretti con il Mali. È per questo che si è impegnata a partire da gennaio del 2012 in un processo di soluzione pacifica della crisi maliana, su richiesta di Bamako, dei gruppi armati coinvolti nei negoziati e anche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cédéao), sotto l’egida dell’ONU.
A livello più personale, ho molti contatti nella regione, grazie in particolare alla mie attività in seno all’Assemblea parlamentare della francofonia. Scegliendo un parlamentare per questa missione, il Dipartimento federale degli affari esteri ha voluto ribadire nei confronti dei nostri partner l’importanza attribuita alla soluzione del conflitto nel Mali.
swissinfo.ch: La Svizzera è stata duramente attaccata l’anno scorso da alcuni politici maliani, che l’accusavano di aver finanziato la ribellione tuareg e indirettamente i gruppi terroristi. Queste animosità sono ancora presenti?
D. B.: L’impegno della Svizzera è generalmente molto ben visto dal Mali. Non si possono tuttavia negare le difficoltà dell’estate dello scorso anno, quando una parte della stampa maliana ha condotto una campagna virulenta contro il nostro paese. Da allora però le acque si sono calmate. Abbiamo spiegato ai nostri interlocutori che non c’era alcuna scelta di campo da parte nostra. La Svizzera non ha mai sostenuto i gruppi armati, ha solo sostenuto la mediazione avvenuta nel Burkina Faso in nome della Cédéao e delle Nazioni unite.
Se c’è stato un sostegno tecnico, è stato solo per preparare i negoziati e arrivare a un accordo, firmato il 18 giugno a Ouagadougou, grazie in particolare all’impegno della Svizzera. Il nostro solo obiettivo è di favorire il ritorno alla pace e all’armonia nel Mali.
swissinfo.ch: Ma la pace nel Mali e nell’intera regione non passerà necessariamente da una maggiore autonomia accordata ai tuareg?
D. B.: Al tavolo dei negoziati è evidentemente necessario che le varie parti ottengano dei passi avanti. Nel quadro del processo di pace i differenti gruppi armati del Mali settentrionale impegnati nei negoziati, e non solo i tuareg, devono poter esprimere le loro rivendicazioni. Perché solo tenendo conto delle aspettative delle popolazioni locali si potranno trovare delle soluzioni durevoli.
swissinfo.ch: La Svizzera non è andata oltre le sue prerogative in questa crisi?
D. B.: No, i suoi sforzi di mediazione si iscrivono perfettamente nel quadro della politica di promozione della pace, della tradizione umanitarie e diplomatica svizzera. Il quadro costituzionale e legale è stato rispettato, così come l’equilibrio dell’azione svizzera nel Mali.
In Svizzera certi ambienti non sono favorevoli al principio di una diplomazia attiva e preferiscono che ci si occupi soprattutto dei problemi interni. Ma in questo mondo globalizzato non si può solo stare a guardare le crisi e i conflitti. È invece essenziale mettere le nostre capacità al servizio della loro soluzione.
Altri sviluppi
Gli “uomini blu” del deserto
swissinfo.ch: Di fronte agli interessi delle grandi potenze presenti nella regione, la voce della Svizzera conta davvero qualcosa?
D. B.: La Svizzera è un paese neutrale, che non ha un passato coloniale, degli interessi strategici né un’agenda politica nascosta in Africa. È per questa ragione che ci viene chiesto di partecipare alla ricerca di soluzioni per questa crisi. Stando a quello che mi dicono i miei interlocutori, il sostegno dato dalla Svizzera è molto importante.
Del resto le attività di cooperazione allo sviluppo sono strettamente legate all’attuale processo di dialogo e di riconciliazione. La Svizzera può contribuire a questo processo per esempio con la sua esperienza in materia di decentralizzazione, un elemento che potrebbe contribuire alla soluzione della crisi nel Mali.
Il Mali fa parte dei paesi prioritari della Direzione svizzera dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Presente da oltre 40 anni in questo paese dell’Africa occidentale, lo scorso anno vi ha destinato 20 milioni di franchi svizzeri, allo scopo di migliorare la sicurezza alimentare, l’educazione, la formazione professionale e la gestione pubblica a livello locale. In seguito all’insurrezione islamista del 2012 nel nord del paese, la DSC ha ricentrato le sue attività nella regione meridionale di Sikasso.
La Svizzera ha partecipato nel ruolo di facilitatrice ai negoziati sfociati nelle elezioni presidenziali di agosto. È rappresentata anche in seno al Comitato internazionale di valutazione e controllo creato nel quadro degli accordi di Ouagadougou, stipulati tra il governo del Mali e i ribelli tuareg dell’MNLA (il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) e dell’HCUA (l’Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad).
Nel mese di agosto, il Consiglio federale(governo svizzero) ha deciso di partecipare con un massimo otto militari non armati alla missione delle Nazioni unite nel Mali (Minsuma). I militari svizzeri si occuperanno in particolare di operazioni di sminamento.
(Traduzione dal francese: Andrea Tognina)
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.