Le soluzioni per lottare contro il cambiamento climatico non dipendono soltanto dai negoziati politici alla Conferenza sul clima di Parigi (COP21) che si apre il 30 novembre, ma anche dai soldi investiti nelle tecnologie pulite.
Il finanziamento dei progetti a protezione del clima è tra i punti centrali delle discussioni condotte in seno alle Nazioni Unite e in particolare alla COP21Collegamento esterno. L’obiettivo è di riunire 100 miliardi di dollari all’anno per sostenere i paesi in via di sviluppo nelle loro politiche di attenuazione e di adattamento al cambiamento climatico.
Per ora, si è tuttavia soltanto a metà strada. Secondo un recente studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), la media delle promesse di aiuto nel periodo 2013-2014 ammonta a 57 miliardi di dollari all’anno.
Oltre i 2 ºC
Un rapporto pubblicato in ottobre dal Climate Action Tracker (CATCollegamento esterno), un gruppo indipendente di climatologi europei, prevede che anche se tutti gli obiettivi volontari di riduzione delle emissioni venissero raggiunti, la temperatura terrestre aumenterebbe di 2,7 ºC.
Il riscaldamento sarebbe quindi superiore ai 2 °C, il valore massimo fissato dalla comunità internazionale. Per il CAT, si tratta pur sempre di un miglioramento rispetto agli impegni presentati lo scorso anno alla conferenza sul clima di Lima, che avrebbero portato a un aumento di 3,1 ºC.
I paesi in via di sviluppo avvertono che senza questi soldi non saranno in grado di investire in nuove forme di energia o in mezzi di trasporto più puliti. Non potranno neppure prepararsi ad affrontare potenziali effetti devastanti dell’aumento della temperature. Stando alle stime del sito britannico Carbon BriefCollegamento esterno, i paesi più poveri avranno bisogno di migliaia di miliardi di dollari nei prossimi 15 anni.
“Spendere in modo intelligente”
Ottenere degli impegni risoluti da parte degli Stati per alimentare il Fondo verde per il climaCollegamento esterno – tra i principali mezzi di finanziamento delle politiche climatiche – non è però semplice. Il fondo non sta progredendo «altrettanto velocemente di quanto molti di noi avrebbero voluto», osserva Stefan Marco Schwager, consulente esterno dell’Ufficio federale dell’ambiente.
Da un anno, il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon si sta sforzando di trasformare la promessa iniziale di 10,4 miliardi di dollari in impegni formali. La Svizzera ha promesso di partecipare alla capitalizzazione del fondo con 100 milioni di dollari, che verranno versati in tre rate tra il 2015 e il 2018.
Ora che «i soldi sono nel salvadanaio», commenta Stefan Marco Schwager, bisogna riflettere su come spenderli «non solo velocemente, ma anche in modo intelligente e con un certo impatto». Inoltre, prosegue, bisogna fare maggiore chiarezza su ciò che viene generalmente definito il “finanziamento climatico”, una questione ampiamente discussa durante la Conferenza sul clima di Lima nel 2014.
Anche i problemi di corruzione che potrebbero emergere al momento di destinare i soldi del fondo suscitano una certa preoccupazione tra i donatori nei paesi industrializzati, osserva Stefan Marco Schwager. «Ogni volta che ci sono dei flussi di denaro c’è anche il rischio di corruzione, di abusi e di inefficienza».
Settore privato
I mezzi finanziari che verranno investiti nella lotta contro il cambiamento climatico dovrebbero tuttavia provenire, per la maggior parte, dal settore privato. Nei prossimi 15 anni, quasi 90 miliardi di dollari confluiranno nelle tecnologie pulite e nelle infrastrutture, ha detto Christina Figueres, segretaria generale della Convenzione quadro delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico (UNFCCCCollegamento esterno), in occasione dell’ultima conferenza sul clima.
Dal canto suo, l’Agenzia internazionale dell’energia sostiene che per limitare l’aumento della temperatura a 2 ºC bisognerà investire 5’000 miliardi di dollari nelle energie pulite entro il 2020.
Sebbene queste cifre possano sembrare colossali, alcuni esponenti del mondo economico non sembrano perturbati. Daniel Rüfenacht, vicepresidente della responsabilità aziendale presso la società di certificazione e d’ispezione SGS, ritiene che le imprese stiano già facendo la loro parte. I governi, sottolinea, devono però collaborare maggiormente con il settore privato. «Gli schemi che verranno messi in atto dipenderanno dalle tecnologie e dall’innovazione provenienti dalle aziende».
«Questi obiettivi non sono irraggiungibili. Il settore privato sta già fornendo tra i due terzi e i tre quarti dei fondi necessari per contrastare il cambiamento climatico», afferma Bertrand Gacon, presidente di Sustainable Finance Geneva (SFG), un’associazione sponsorizzata da aziende private, incluse numerose banche, e dal governo cantonale. «Quello che l’umanità spende per le sigarette supera quello che l’umanità dovrebbe spendere per far fronte al cambiamento climatico», illustra.
Obbligazioni verdi
Dal 2014, il mercato delle obbligazioni verdi – che finanzia progetti con un impatto positivo sull’ambiente e il clima – è cresciuto rapidamente. Le nuove emissioni hanno raggiunto un totale di oltre 40 miliardi di dollari. Le obbligazioni, a reddito fisso, finanziano essenzialmente la costruzione di centrali per le energie rinnovabili, il miglioramento dell’efficienza energetica e le tecnologie di trasporto ecologiche.
Sebbene le obbligazioni verdi continuino a rappresentare «una goccia nell’oceano» rispetto alla dimensione totale dei mercati finanziari, stanno «iniziando a rappresentare una cospicua somma di denaro» nella lotta contro il cambiamento climatico, rileva Bertrand Gacon.
Per la prima volta, spiega, si dispone di un prodotto destinato al grande pubblico nel quale possono investire sia il settore privato sia quello pubblico (governi, fondi pensione,…). Sostenute dalla Banca mondiale, le obbligazioni verdi sono col tempo diventate più sofisticate, ciò che permette agli investitori di concentrarsi maggiormente sul luogo esatto in cui desiderano investire, invece che di puntare unicamente sull’emittente delle obbligazioni.
La banca Credit Suisse e l’assicuratore Zurich hanno entrambi svolto ruoli attivi nella promozione del mercato delle obbligazioni verdi. Lo scorso anno, Zurich Insurance ha ad esempio investito in questo mercato 2 miliardi di dollari. Il responsabile degli investimenti dell’azienda ha tuttavia suscitato scalpore tra i sostenitori di un’economia sostenibile affermando di non escludere l’acquisto di obbligazioni verdi presso dei produttori di combustibili fossili, ciò che solleva interrogativi sulla definizione di “investimenti ecologici”.
Investimenti a impatto
La società di investimento ginevrina Quadia fa parte di quelle aziende, sempre più numerose in Svizzera, che si interessano a un altro importante ambito della finanza verde: l’investimento a impatto, una forma d’investimento socialmente ed ecologicamente responsabile. Quadia lavora in particolare con aziende innovative che fanno fatica a trovare fondi sui mercati finanziari tradizionali.
Questo nuovo modello d’affari è molto attrattivo per gli investitori, afferma Bertrand Gacon. Non solo per il suo impatto sociale e ambientale, ma anche perché genera dei rendimenti elevati e perché consente di diversificare il portafoglii.
Bertrand Gacon, che è pure responsabile degli investimenti a impatto presso la banca privata Lombard Odier, osserva che i banchieri devono però ancora adattarsi a questo «cambiamento culturale» e diventare più consapevoli di tutti i benefici della finanza sostenibile.
L’alveare che dice sì!
Tra le aziende sostenute da Quadia c’è “La Ruche qui dit oui” (“L’alveare che dice sìCollegamento esterno”), una società francese specializzata nella fornitura di alimenti. In media, la distanza tra produttori (agricoltori e artigiani) e consumatori che partecipano a questa rete è di 43 chilometri. In gergo si parla di “circuiti corti”.
Quasi il 25% delle emissioni di gas a effetto serra proviene dall’agricoltura e dal trasporto delle derrate alimentari, rammenta Aymeric Jung di Quadia.
Grazie alla partecipazione di Quadia, e di tre altri investitori, “La Ruche qui dit oui” ha potuto espandersi in Germania, Spagna, Regno Unito e Italia. Attualmente dispone di 700 “alveari” dai quali distribuisce gli alimenti di 4’000 produttori.
«Questa è una soluzione che favorisce nuove abitudini alimentari grazie a un nuovo sistema che permette di ridurre le conseguenze negative dovute ad alimenti che fanno tre volte il giro del mondo prima di approdare sui nostri piatti», spiega Aymeric Jung.
Traduzione e adattamento dall’inglese di Luigi Jorio
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Le grandi potenze vogliono giungere a un accordo globale sul clima per il periodo post 2020. A sei mesi dalla Conferenza di Parigi, rimangono tuttavia profonde divergenze. E gli obiettivi di riduzione delle emissioni presentati finora, tra cui quelli svizzeri, sollevano dubbi da più parti.
Il 2015 deciderà le condizioni di vita dei nostri figli e nipoti. Esagerato? Forse. Sta però di fatto che per molti responsabili politici ed esperti climatici, la Conferenza internazionale di Parigi di dicembre rappresenta una tappa decisiva per definire il futuro (climatico) del pianeta. L’obiettivo è un’intesa universale e vincolante per contenere il riscaldamento globale a 2°C rispetto alla media preindustriale.
Riscaldamento climatico in cifre
Emissioni mondiali: nel 2014 sono rimaste stabili (a 32,3 miliardi di tonnellate) rispetto all’anno precedente, indica l’Agenzia internazionale dell’energia, che spiega questa pausa con gli sforzi della Cina per ridurre il ricorso al carbone e sviluppare le energie rinnovabili.
Concentrazione di CO2: nel marzo di quest’anno ha raggiunto il valore record di 400 ppm (parti per milione). La concentrazione era di 354 ppm nel 1990 e di 359 nel 2000.
Principali emettitori: Cina e Stati Uniti sono responsabili del 45% delle emissioni mondiali.
Temperatura media terrestre: dal 1880 è crescita di 0,86°C (1,75°C in Svizzera). Quattordici dei quindici anni più caldi della storia sono stati registrati nel XXI secolo e il 2014 è stato l’anno più caldo mai misurato.
Dall’ultimo round negoziale, chiusosi la settimana scorsa a Bonn, sono giunti segnali positivi, rileva Bruno Oberle, a capo dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM). «Per la prima volta è chiaro che praticamente tutte le parti, compresi Stati Uniti, Unione europea e Cina, vogliono concludere un accordo a Parigi», indica Bruno Oberle in una risposta scritta a swissinfo.ch. Gli elementi chiave dell’accordo, tra cui l’obbligo di stabilire obiettivi vincolanti di mitigazione del cambiamento climatico, si stanno delineando in modo sempre più evidente, sottolinea.
«Sussistono però ancora grandi divergenze», puntualizza Oberle. Due sostanzialmente le principali questioni aperte: la forma giuridica del futuro accordo e la ripartizione degli sforzi di riduzione delle emissioni tra i vari paesi. «Devono avere tutti gli stessi obblighi oppure bisogna fare una distinzione tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo? E in caso di differenziazione, va mantenuto il regime che considera la Cina o Singapore tra i paesi in via di sviluppo, oppure bisogna tenere conto delle realtà, delle responsabilità e delle capacita attuali e future di ognuno?», s’interroga il responsabile dell’UFAM.
Dimezzare le emissioni entro il 2030
In vista di Parigi, tutti i 196 paesi membri della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici sono chiamati a presentare i propri impegni di riduzione (INDC, contributi nazionali volontari di riduzione delle emissioni) per il periodo post 2020. Se giudicati adeguati, verranno inclusi nell’accordo universale.
Nel mese di febbraio di quest’anno, la Svizzera è stato il primo paese ad annunciare i suoi obiettivi. Il governo elvetico si è fissato una riduzione del 50% entro il 2030 (rispetto ai valori del 1990) e del 70-85% entro il 2050.
Finora, sono una quarantina i paesi ad aver sottoposto i loro contributi volontari. Tra questi:
- Unione europea (28 Stati membri): riduzione di almeno il 40% entro il 2030 (rispetto al 1990) e dell’80-95% entro il 2050.
- Stati Uniti: riduzione del 26-28% entro il 2025 (rispetto al 2005). Riduzione dell‘80% entro il 2050.
- Russia: riduzione del 25-30% entro il 2030 (rispetto al 1990).
All’appello mancano ancora alcuni grandi emettitori, tra cui India e Brasile, che presenteranno i loro INDC non prima di ottobre. Molto atteso è soprattutto il programma di riduzione della Cina, il principale “inquinatore” al mondo, che alcuni mesi fa ha annunciato l’intenzione di voler raggiungere il picco di emissioni entro il 2030.
Le promesse non bastano
I contributi attualmente sul tavolo sono in linea con le raccomandazioni dell’IPCC. Gli esperti climatici delle Nazioni Unite ritengono che le emissioni dovrebbero ridursi del 40-70% entro il 2050, se si vuole limitare a 2°C il rialzo della temperatura terrestre. Un obiettivo riconosciuto anche dai paesi più industrializzati, che durante l’ultimo vertice del G7 si sono impegnati in favore di una “decarbonizzazione” dell’economia entro la fine del secolo.
Tuttavia, secondo il gruppo di monitoraggio indipendente Climate Action Tracker (CAT), le grandi economie industrializzate non stanno facendo abbastanza. Nel suo ultimo rapporto di inizio giugno, il CAT rileva che le attuali politiche dei paesi del G7 e dell’Ue riusciranno soltanto a stabilizzare, ma non a ridurre, le emissioni entro il 2030. Sulla base delle attuali promesse, l’aumento della temperatura terrestre sarà compreso tra 3,6 e 4,2°C, prevede il CAT, che parla di conseguenze «spaventose».
A tirare il campanello di allarme è pure l’organizzazione non governativa Oxfam. Nel suo nuovo rapporto evidenzia che cinque dei sette paesi del G7 hanno accresciuto il ricorso al carbone dal 2010. E quelli che non l’hanno fatto, Stati Uniti e Canada, hanno sostituito il carbone con altri combustibili fossili, sottolinea Oxfam.
Anche la Svizzera deve fare di più
I ricercatori del CAT puntano il dito anche contro la Svizzera. Nella loro valutazione, il contributo elvetico è giudicato «medio», ciò che significa che non è compatibile con il mantenimento del riscaldamento al di sotto dei 2°C. Inoltre, aggiungono, con le politiche e le misure attualmente in atto, la Svizzera non sarà in grado di soddisfare i propri impegni in materia di clima.
Un’analisi che conferma le valutazioni dell’Alleanza climatica, osserva Patrick Hofstetter, responsabile del dossier climatico ed energetico presso WWF Svizzera. Le riduzioni fissate dal governo elvetico sono «insufficienti e inaccettabili», dice. «La Svizzera non deve limitarsi alle raccomandazioni dell’IPCC, che concernono le emissioni globali. I paesi altamente industrializzati, che dispongono di tecnologie e di una migliore governance rispetto a paesi in via di sviluppo o emergenti, devono fare di più», insiste Patrick Hofstetter.
In una petizione sottoscritta da oltre 100'000 persone, l’Alleanza climatica chiede alla Svizzera una riduzione del 60% entro il 2030 e un abbandono completo delle energie fossili entro il 2050. Il settore dei trasporti e le economie domestiche offrono un ampio margine di riduzione, sostiene Patrick Hofstetter. «Oltre il 40% degli edifici continuano a essere riscaldati con olio combustibile e le statistiche mostrano che in due terzi dei casi i vecchi riscaldamenti non vengono sostituiti con sistemi più rispettosi del clima, come pompe a calore, impianti solari o caldaie a legno in pellet», osserva Hofstetter.
A lasciare perplesso il collaboratore del WWF è in particolare l’atteggiamento delle autorità svizzere. Il dossier climatico non è più prioritario, sostiene. «È abbastanza scioccante notare che negli INDC della Svizzera, il governo non abbia indicato come intende agire sul territorio nazionale», afferma Patrick Hofstetter. Il Consiglio federale ha comunicato di volersi basare «sulle strategie e le misure esistenti», come la tassa sul CO2 prelevata sui combustibili o il programma di risanamento degli edifici. Una bozza della sua politica climatica nazionale per il periodo 2021-2030 non sarà però pronta prima dell’anno prossimo.
Gli INDC della Svizzera sono chiari, trasparenti e ambiziosi, ribatte Bruno Oberle. Il direttore dell’UFAM rammenta che le emissioni pro capite sono sotto la media europea e che la produzione di elettricità (acqua e atomo) in Svizzera è oggi quasi a emissioni zero. «Anche per questi motivi il potenziale di riduzione della Svizzera è limitato», sottolinea.
10 giorni di trattative
A sei mesi dalla conferenza di Parigi, il negoziatore elvetico Franz Perrez si dice fiducioso. «Nella capitale francese si potrà concludere un accordo climatico con obblighi per tutti i paesi», si legge in una recente intervista al quotidiano bernese Der Bund.
Il tempo però stringe. Ai negoziatori rimangono soltanto dieci giorni di trattative ufficiali, in settembre e ottobre, per elaborare il testo che servirà da base per la storica intesa.
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