«La Svizzera è abituata a far politica all’antica»
La Confederazione si è ultimamente ritrovata nell'occhio del ciclone della critica internazionale. Per valutarne le conseguenze, swissinfo.ch ha intervistato Marcello Foa, direttore dell'Osservatorio europeo di giornalismo.
L’immagine della Svizzera oscilla attualmente tra i tratti caratteristici a cui viene solitamente associata – neutralità, efficienza, discrezione – e l’eco internazionale delle vicende interne ed esterne che la riguardano.
Di questi tempi, in particolare: le dure critiche da parte della comunità internazionale per l’esito della votazione che ha sancito il divieto di costruire nuovi minareti, gli attacchi al segreto bancario, le irregolarità commesse da UBS negli Stati Uniti e le relative conseguenze, i problemi con la Libia l’arresto del regista Roman Polanski in circostanze oggetto di non poche critiche.
Per capire se e come sta cambiando la percezione della Svizzera all’estero, swissinfo.ch ha discusso con Marcello Foa, giornalista italo-svizzero e profondo conoscitore del panorama mediatico internazionale.
swissinfo.ch: Come valuta l’impatto a livello d’immagine per la Svizzera in seguito all’esito della votazione sui minareti?
Marcello Foa: L’effetto è a mio parere duplice e paradossale. L’establishment internazionale – per esempio le Nazioni unite, l’Unione europea, il Vaticano – non ha apprezzato questa decisione e l’ha criticata apertamente.
Dal punto vista della base, invece, le reazioni sono state assai positive. La decisione elvetica ha infatti toccato delle sensibilità che in alcuni paesi sono molto vive: la “pancia” di una certa parte della popolazione francese, italiana, olandese, tedesca ha infatti salutato con entusiasmo il voto elvetico.
In generale, tuttavia, credo non si debba sopravvalutare la portata di questo scrutinio. Il voto sui minareti ha sì suscitato forti emozioni, ma queste restano comunque fini a sé stesse: non cambierà né il corso della politica estera elvetica né i rapporti globali della Confederazione con gli altri paesi.
swissinfo.ch: A suo parere, la Svizzera ha esaurito il proprio capitale di simpatia e di rispetto all’estero?
M.F.: Anche in questo caso, è necessario distinguere tra il popolo e le élites, i governi. Nella percezione dei cittadini comuni, la Confederazione continua ad avere gli stessi pregi e gli stessi difetti degli ultimi quaranta-cinquant’anni, ossia dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Per quanto concerne i governi, invece, si assiste a un netto cambiamento. Quest’ultimo è a mio parere originato da una precisa strategia da parte di Stati Uniti e Unione europea, volta a eliminare i cosiddetti paradisi fiscali. La Svizzera costituisce infatti un’anomalia sia per Washington sia per Bruxelles.
Fintanto che l’Unione sovietica era presente negli equilibri geopolitici, la particolarità della Confederazione era gradita agli altri paesi occidentali per il suo ruolo di ponte tra i due mondi. Ora la situazione è sostanzialmente mutata. Ciò è però avvenuto per il cambiamento del contesto economico e sociopolitico, non per questioni di simpatia.
swissinfo.ch: A questo proposito, la politica di comunicazione internazionale della Svizzera è inadeguata?
M.F.: Al giorno d’oggi, le guerre politiche si combattono grazie agli “spin doctors” [esperti di comunicazione al servizio degli uomini politici]. La Confederazione si trovò per la prima volta sotto il fuoco di fila degli spin doctors statunitensi all’epoca dei fondi ebraici in giacenza: in quell’occasione, la Svizzera non capì il funzionamento del meccanismo e rispose in modo scomposto alle critiche.
Da quel periodo sono trascorsi alcuni anni, ma la Svizzera non ha imparato la lezione. La Confederazione è abituata a far politica all’antica, pensando che sia sufficiente incontrare a quattr’occhi un leader politico per risolvere un problema.
In realtà, se un paese finisce nel mirino della critica, oggigiorno subisce un vero e proprio bombardamento mediatico. La Svizzera non ha saputo prepararsi a questo tipo di confronto, e non è nemmeno stata in grado di prevenirlo.
Un altro aspetto problematico è legato alla capacità dei governi svizzeri dell’ultimo decennio: sono infatti mancati politici di spicco capaci di leggere l’attualità internazionale con una certa personalità e di assicurarsi le alleanze necessarie per resistere alle manovre ostili. In questo senso, la strategia elvetica è stata autolesionista.
swissinfo.ch: Cosa servirebbe per attuare una politica di comunicazione efficace?
M.F.: Sono necessari specialisti in comunicazione estremamente esperti, capaci di captare i segnali di pericolo appena questi si presentano. Alla Confederazione sono mancate tali personalità.
Un altro elemento da sottolineare è una sorta di “complesso svizzero”, che noto particolarmente nella ministra degli affari esteri Micheline Calmy-Rey. C’è infatti un’ansia di farsi riconoscere, per esempio dall’Unione europea, correndo da tutti con il cappello in mano.
Ovviamente la Svizzera non ha il peso degli Stati Uniti e nemmeno della Francia, ma il suo modo di porsi sulla scena internazionale risulta errato, poiché basato su un complesso che finisce per fare il gioco dei suoi avversari.
Inoltre, in passato il ruolo di ambasciatore de facto degli Stati Uniti nei paesi dove questi ultimi non erano presenti ufficialmente – per esempio l’Iran – costituiva il riconoscimento dell’importanza della Confederazione. Oggi questo tipo di impegno non viene più considerato come rappresentativo di un rapporto privilegiato.
swissinfo.ch: La complessità politica e linguistica della Svizzera la rende più difficile da spiegare all’estero attraverso i media rispetto ad altri paesi?
M.F.: No, perché quasi tutto il giornalismo si basa purtroppo – in larga parte – su luoghi comuni. Ciò vale ad esempio anche per paesi come gli Stati Uniti, la Francia, l’Italia, la Spagna. Il substrato sul quale il giornalista fonda il proprio giudizio è generalmente costituito da percezioni radicate.
Ecco perché gli svizzeri finiscono ancora per essere associati agli gnomi di Zurigo, al cioccolato, alla cultura del lavoro e agli orologi a cucù.
Andrea Clementi, swissinfo.ch
L’istituto di ricerche demoscopiche Isopublic ha intervistato, nel mese di luglio del 2009, 998 persone in Germania e 1’000 negli Stati Uniti per sapere che immagine hanno della Svizzera.
Alle persone interrogate sono stati sottoposti quattro giudizi sulla Svizzera ed è stato chiesto loro in che misura li condividono. Gli intervistati dovevano esprimere il loro parere su una scala da 1 (per nulla d’accordo) a 10 (pienamente d’accordo).
Nel confronto, l’immagine della Svizzera risulta ampiamente positiva, anche se leggermente migliore negli Stati Uniti che in Germania. Non sono però emerse divergenze fra la visione della Svizzera che hanno i tedeschi e quella che hanno gli americani.
Marcello Foa è nato a Milano nel 1963. Laureato in Scienze politiche, possiede la cittadinanza svizzera e italiana. Ha iniziato la sua carriera giornalistica presso Gazzetta Ticinese e Giornale del Popolo.
Nel 1993 Indro Montanelli, all’epoca direttore del Giornale, lo ha nominato caporedattore esteri. Dall’agosto 2005 è pure inviato speciale. Ha collaborato con numerose testate radiotelevisive, in particolare Bbc Radio, Radio3Rai, Radio24, Rai Uno, Rtsi, Italia Uno, Retequattro e i settimanali svizzeri Azione e Weltwoche.
Nel 2004 ha fondato con il professor Stephan Russ-Mohl l’Osservatorio europeo di giornalismo, a Lugano. Dal 2004 tiene corsi di giornalismo internazionale all´USI ed ha tenuto lezioni e conferenze all’Università degli Studi di Milano, all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Bergamo.
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