Malumori attorno a un accordo migratorio sconosciuto tra Svizzera e Cina
Numerosi deputati e ONG sono irritati a causa di un accordo tra Berna e Pechino che autorizza degli agenti cinesi a soggiornare in Svizzera per identificare i loro compatrioti in situazione irregolare, in vista della loro espulsione. L’accordo è uno strumento che facilita l’applicazione della legge, rispondono i suoi difensori.
“Dei funzionari di dittature brutali devono essere autorizzati a rintracciare i loro compatrioti in Svizzera?”. L’interrogativo posto dall’organizzazione Notredroit.ch riassume la controversia emersa in Svizzera dopo che il domenicale NZZ am SonntagCollegamento esterno ha rivelato, il 23 agosto, l’esistenza di un accordo bilaterale finora poco conosciuto.
Concluso nel dicembre 2015 tra la Segreteria di Stato della migrazione (SEM) e il suo equivalente al Ministero cinese della sicurezza pubblica, l’accordoCollegamento esterno ha lo scopo di “rafforzare la collaborazione bilaterale nella lotta contro la migrazione irregolare”, si legge nel preambolo del testo consultato da swissinfo.ch.
L’intesa consente il rilascio di un visto temporaneo di al massimo due settimane e due esperti dell’amministrazione cinese. Il lor compito: aiutare la SEM a confermare la nazionalità e l’identità dei cittadini cinesi sospettati di risiedere illegalmente sul territorio elvetico, in vista della loro espulsione.
La visita di questi agenti cinesi avviene su invito e a spese della Confederazione. Stando all’articolo della NZZ, finora una sola delegazione cinese è venuta in Svizzera nel 2016. In seguito, 13 persone sono state espulse.
Se si parla del documento solo adesso è perché nessuno o quasi ne era a conoscenza. Siccome si tratta di un accordo tecnico e non di un trattato internazionale, è stato firmato nella massima discrezione e non è mai stato pubblicato nella Raccolta sistematica del diritto federale. L’accordo giungerà a scadenza tra qualche mese e la decisione sul suo rinnovo sarà presa alla fine dell’anno.
Una pratica “nell’interesse della Svizzera”
Invitata in questi giorni a fornire spiegazioni, la SEM difende la sua pratica che reputa “nell’interesse della Svizzera” e necessaria per svolgere il suo ruolo nel quadro dell’espulsione degli stranieri in situazione irregolare. I funzionari cinesi “conducono colloqui con le persone che sono state legalmente espulse e che devono lasciare la Svizzera”, indica Daniel Bach, responsabile della comunicazione della SEM, in una e-mail inviata a swissinfo.ch.
“Il fatto è che le persone che sono state legalmente espulse e che soggiornano illegalmente in Svizzera dovrebbero lasciare il nostro Paese. L’alternativa sarebbe che continuino a vivere qui, senza diritto di soggiorno”, scrive Bach, aggiungendo che questa cooperazione in materia di identificazione sarebbe possibile anche senza un accordo formale, unicamente sulla base legale della legge sull’asilo e della legge sugli stranieri e l’integrazione.
Berna ha concluso accordi simili con una sessantina di Stati, tra cui Paesi in cui la questione del rispetto dei diritti umani è, come in Cina, molto delicata. Tra questi: Turchia, Russia, Filippine e Algeria. La maggior parte di queste disposizioni rientrano in accordi di riammissioneCollegamento esterno ufficiali, attualmente 48, di cui alcuni sono validi per più Paesi.
Docente di diritto all’Università di Friburgo, Sarah Progin-Theuerkauf vede in questo tipo di accordi la manifestazione di una politica migratoria sempre più restrittiva ed esternalizzata. “Per sbarazzarsi di un massimo di persone mantenendo le mani pulite, si è disposti a delegare la questione a Paesi terzi, non sempre molto democratici. Ma in quanto Stato che finanzia, abbiamo comunque una responsabilità”, osserva.
Sarah Progin-Theuerkauf confida d’altronde a swissinfo.ch di aver scoperto l’esistenza di questi accordi tramite la stampa. La professoressa ritiene che ciò rappresenti un problema di trasparenza “per delle decisioni che hanno una tale portata politica”.
Il segretario di Stato alla migrazione Mario Gattiker si è presentato dieci giorni fa davanti alla Commissione di politica estera del Consiglio nazionale (Camera del popolo). Il deputato liberale radicale Laurent Wehrli, membro della commissione, ha trovato le sue spiegazioni convincenti. Wehrli ritiene che gli accordi di riammissione siano necessari per far applicare la legge sull’espulsione degli stranieri, in particolare di quelli che hanno commesso crimini, e quindi la volontà del popolo.
“Ci vuole un’organizzazione e preferisco che questa sia definita tramite un accordo” che “fissa un sistema e delle modalità”, spiega il parlamentare, che si dice quindi favorevole a un rinnovo dell’accordo. Il governo svizzero, puntualizza, deve però “vegliare affinché i diritti umani siano garantiti”.
Preoccupazioni sulla sorte delle persone espulse
È il principale punto di attrito, considerato che la Cina è regolarmente criticata per le sue violazioni dei diritti umani. La repressione del movimento a favore della democrazia a Hong Kong o le rivelazioni sulla sorte della minoranza uigura ne sono degli esempi recenti. “La situazione sul fronte della politica interna si è fortemente inasprita e aggravata negli ultimi mesi, con più sorveglianza e repressione dei dissidenti”, rileva Angela Mattli, responsabile della campagna su minoranze e discriminazione della Società per i popoli minacciati.
In seguito alle rivelazioni della NZZ, il deputato socialista Fabian Molina e la parlamentare ecologista Sibel Arslan, entrambi membri della Commissione di politica esterna del Nazionale, hanno chiesto la cessazione dell’accordo. Una richiesta sostenuta anche da Amnesty International, per cui l’intesa è “estremamente problematica”. Per l’organizzazione a difesa dei diritti umani, “il monitoraggio dei rischi non è sufficientemente serio per permettere la sua estensione”, afferma a swissinfo.ch la portavoce Nadia Boehlen.
Da parte sua, la SEM assicura che “solo le persone per le quali si è giunta alla conclusione che non sono minacciate nel loro Paese di origine, e possono farvi ritorno, sono interrogate”, ciò che esclude le perseguitate minoranze tibetane e uigure.
Ciononostante, Amnesty International si preoccupa del trattamento che potrebbe essere riservato in Cina alle persone espulse. Su questo punto, sostiene, la SEM non fornisce sufficienti rassicurazioni. “Sembra che non siano stati fatti alcuna analisi del rischio e alcun monitoraggio nel Paese d’origine”, spiega Nadia Boehlen.
La Società per i popoli minacciati, rappresentata alla Camera dei Cantoni dalla sua presidente, l’ecologista Lisa Mazzone, chiede che ogni accordo di riammissione sia accompagnato da garanzie che permetterebbero di limitarne l’applicazione in situazioni in cui questi diritti fondamentali non sono rispettati. Una posizione condivisa dall’associazione Notre Droit.
Finora, la decisione di rinnovare o meno l’accordo non è ancora stata presa. “Discuteremo di un’eventuale estensione con le autorità cinesi e poi prenderemo una decisione”, indica la SEM.
La questione potrebbe ancora suscitare discussioni durante la sessione parlamentare in autunno. Indipendente da come si svilupperanno i dibattiti alle Camere, il Dipartimento federale di giustizia e polizia farà a meno del consenso del Parlamento, nel caso volesse prorogare questo accordo tecnico. Ma la decisione non sarà presa in modo così discreto come cinque anni fa.
Traduzione dal francese: Luigi Jorio
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