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Riforme in Cina grazie alle pressioni internazionali?

Manifestazione a Hong Kong nel 2012 affinché venga detta la verità sulla morte del dissidente cinese Li Wangyang. Reuters

Mentre la Cina annuncia nuove riforme, Berna riprenderà la settimana prossima il dialogo con Pechino per migliorare la situazione dei diritti umani. Secondo i suoi promotori, il dialogo bilaterale su base confidenziale promette risultati migliori rispetto alle azioni pubbliche.

In programma dal 25 al 27 novembre a Pechino, il nuovo ciclo di discussioni tra la Svizzera e la Cina segue di poco le riforme economiche e sociali annunciate alla fine del XVIII congresso del Partito comunista cinese, riforme che comprendono un ammorbidimento della politica del figlio unico, l’abolizione dei campi di rieducazione attraverso il lavoro e un’applicazione meno ampia della pena di morte.

Questi passi sono visti molto favorevolmente dall’ambasciatore Paul Koller, capo della delegazione svizzera che sta per recarsi a Pechino per la dodicesima sessione dei colloqui sui diritti umani tra la Svizzera e la Cina. La precedente sessione si era tenuta nel marzo del 2011 a Berna.

«Questi annunci ci fanno piacere. Vanno nella direzione delle nostre raccomandazioni e riguardano temi che da numerosi anni stiamo discutendo con i nostri partner cinesi», dice Koller.

Alain Bovard, giurista della sezione svizzera di Amnesty International è però prudente: «È una passo nella giusta direzione, ma bisognerà vedere come queste riforme saranno applicate. I campi di rieducazione attraverso il lavoro non dovrebbero essere per esempio sostituiti da altre forme di detenzione arbitraria».

Durante l’esame della Cina di fronte al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite il 22 ottobre 2013, la Svizzera ha espresso le seguenti raccomandazioni:

– La Svizzera vede con favore la riduzione del campo di applicazione della pena di morte, anche se il fine ultimo dev’essere la sua abolizione. La Svizzera raccomanda la pubblicazione di statistiche sulle esecuzioni.

– Preoccupata per la repressione contro attori indipendenti della società civile, la Svizzera raccomanda alla Cina di assicurare che i difensori dei diritti umani possano esercitare la loro attività legittima, inclusa la partecipazione ai meccanismi internazionali, senza essere soggetti a rappresaglie.

– La Svizzera raccomanda alla Cina di facilitare le visite dell’Alto commissario per i diritti umani e dei relatori speciali, anche nelle regioni tibetane e uigure.

Progressi effettivi

Marie-Claire Bergère, nota sinologa francese, ricorda che questa nuova serie di riforme s’iscrive nel cambiamento di rotta voluto dalla nuova generazione al potere a Pechino: «Ci sono già stati di recente dei progressi considerati positivi dagli stessi cinesi».

Una vigorosa campagna anti-corruzione, lanciata dopo l’ascesa al potere di Xi Jinping – nominato segretario del Partito comunista cinese nell’autunno del 2012 e presidente nel marzo del 2013 – ha portato all’arresto e alla condanna di alcuni alti dirigenti del partito. Tra di loro ci sono per esempio Jiang Jiemin, capo della Commissione di amministrazione e supervisione dei beni dello Stato, e Liu Tienan, vicepresidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e le risorse, vale a dire la commissione che guida l’insieme dell’economia cinese.

«In un paese segnato da una corruzione generalizzata però, la messa alla gogna di alti funzionari è anche indice di lotte di clan e di fazione», puntualizza Marie-Claire Bergère.

Di fatto, la repressione contro le voci critiche continua. Un rapporto di Amnesty International – redatto in occasione dell’esame periodico della Cina tenutosi a fine ottobre a Ginevra davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite – mette l’accento su varie «severe sanzioni penali contro scrittori, blogger, giornalisti, professori, persone che hanno fatto denunce e semplici cittadini che hanno esercitato pacificamente il loro diritto alla libertà d’espressione».

Il dato è confermato da Marie-Claire Bergère: «Gli obiettivi privilegiati del regime sono gli avvocati specializzati nella difesa delle minoranze oppresse e dei contadini le cui terre sono state espropriate. Alcuni sono arrestati, altri sono detenuti senza procedura giudiziaria o amministrativa».

«La repressione colpisce anche i giornalisti», prosegue la sinologa. «Molti si autocensurano, alcuni tentano a volte di superare la linea rossa per testare i limiti del regime. Tanto più che il governo li ha ufficialmente chiamati, assieme a tutti gli altri cittadini, a denunciare gli abusi per lottare contro la corruzione e l’inquinamento. Ma alcune di queste denunce si concludono con l’arresto dei loro autori».

«Le riforme annunciate questo mese non fanno vacillare il conservatorismo politico, che ne esce anzi rafforzato. Prendo atto tuttavia della creazione di un comitato di pilotaggio delle riforme, presieduto da Wang Yang, considerato il capo della corrente liberale in seno al partito», nota Marie-Claire Bergère.

Un processo opaco

Cosa ci si può aspettare dunque dal dialogo sui diritti umani tra Berna e Pechino?

Paul Koller ne sottolinea l’utilità. «Come dimostrato dalle riforme appena annunciate, questi scambi di opinione, che avvengono anche con altri paesi, trovano un’eco in seno alle autorità cinesi. Benché il sistema a partito unico rimanga intoccabile, molti soggetti sensibili, come la questione delle minoranze, i diritti sociali, la pena di morte o il sistema giudiziario, possono essere discussi», osserva il diplomatico.

Il capo della delegazione svizzera è convinto dell’utilità della discrezione che circonda questi colloqui. «Il quadro confidenziale del dialogo permette di avere scambi diretti, aperti, e di formulare critiche costruttive. Esperti dei due paesi si incontrano per discutere temi come il sistema carcerario, le minoranze, i diritti umani legati all’attività economica, le libertà individuali».

Nell’ambito di questi colloqui, il governo svizzero è in contatto anche con i difensori svizzeri dei diritti umani. Così Alain Bovard precisa i contorni di questa collaborazione:

«In alcuni casi siamo associati a questi scambi. In altri siamo informati. Ma l’insieme del processo rimane molto poco trasparente. Da quando nel 1991 è cominciato questo dialogo, faccio fatica a misurarne gli effetti. A mio avviso i cinesi fanno solo quello che vogliono».

Priorità all’economia

Anche Marie-Claire Bergère rimane scettica. «Rispetto agli anni Novanta, la difesa dei diritti umani in Cina da parte di interlocutori stranieri si è molto ridotta. Oggi si parla molto più di contratti che di diritti umani».

«Dopo il 1989 (anno del massacro di piazza Tienanmen, NdR) i diritti umani avevano un ruolo di primo piano nelle discussioni e nei negoziati condotti dai dirigenti occidentali che si recavano a Pechino. Con l’ascesa della Cina al ruolo di potenza economica, l’azione degli occidentali in favore dei diritti umani ha perso vigore», si rammarica la sinologa.

Quest’anno la Confederazione ha firmato un accordo di libero scambio con la Cina, accolto con grande soddisfazione dagli ambienti economici. I difensori dei diritti umani da parte loro biasimano il ruolo marginale attribuito ai diritti del lavoro e criticano l’assenza, nel documento di oltre 1200 pagine, di riferimenti ai diritti umani.

Un processo interno

È meglio allora privilegiare le campagne internazionali che denunciano le violazioni dei diritti umani in Cina? Alain Bovard ha finito per dubitarne: «Permettono di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale. Ma rimane da dimostrare che favoriscano davvero i cambiamenti in Cina».

«Amnesty International ha provato di tutto: azioni pubbliche, azioni più confidenziali. Da due anni proviamo a rafforzare la società civile cinese, mostrandole per esempio i diritti dei quali può valersi».

Alla fine di ottobre 2013 la Cina è stata al centro del secondo Esame periodico universale di fronte al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Un esame a cui tutti gli stati membri dell’ONU sono sottoposti ogni quattro anni.

In questa occasione Wu Hailong, capo della delegazione cinese, ha dichiarato: «Quattro anni fa la Cina aveva preso il seguente impegno: il mondo vedrà una Cina con un’economia più prospera, una democrazia e uno stato di diritto migliorati, una società più armoniosa e una popolazione più felice». Secondo Wu Hailong, questi impegni sono stati rispettati o sono sulla buona strada per esserlo.

Le autorità cinesi non respingono completamente le critiche e le raccomandazioni espresse dagli stati durante l’esame all’ONU. Presente a Ginevra, You Jianhua, segretario generale della rete delle ONG cinesi per gli scambi internazionali – vicino al governo – ha detto a swissinfo.ch: «Molte di queste raccomandazioni riconoscono quanto fatto dalla Cina. Le critiche, in buona parte costruttive, favoriscono lo sviluppo dei diritti umani in Cina».

You Jianhua ha tuttavia anche precisato «che ci sono critiche che fanno un uso politico del concetto dei diritti umani. Alcune sono ideologiche e attentano alla reputazione del paese. Sono ingiuste e infondate. Il popolo cinese non può accettarle».

Traduzione dal francese di Andrea Tognina

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