Sanzioni internazionali, uno strumento di dialogo
Dopo quasi 20 anni la morsa internazionale attorno al Myanmar è stata allentata. Le sanzioni applicate agli Stati possono essere uno strumento molto efficace, rileva il professor Thomas Biersteker. Vanno però intese come uno stimolo al miglioramento, non come una punizione.
Per l’ex Birmania si è trattato di un evento storico. L’ennesimo dopo l’istituzione di un governo civile nel marzo 2011 o l’elezione di Aung San Suu Kyi nel parlamento nazionale lo scorso 1. aprile.
La decisione dell’Unione europea di sospendere le sanzioni internazionali, a cui ha fatto seguito quella della Svizzera, mette fine a quasi due decenni di isolamento del Myanmar.
Adottate a metà anni Novanta, le sanzioni europee prevedono restrizioni commerciali e il blocco dei visti e dei beni di diverse personalità legate alla vecchia giunta militare. L’embargo sulle armi verrà mantenuto, ma a partire dal mese prossimo sarà (nuovamente) possibile investire in quello che molti hanno già definito “l’eldorado birmano”.
Il governo svizzero, ha indicato giovedì il Dipartimento federale dell’economia, «ha deciso di allentare le sanzioni contro il Myanmar (Birmania), in risposta ai progressi registrati negli ultimi mesi nel paese del Sud-est asiatico in materia di diritti umani e democratizzazione».
Di ritorno da un soggiorno di tre giorni in Myanmar, il responsabile della Divisione Asia e Pacifico del Dipartimento federale degli affari esteri, Beat Nobs, si è detto «ottimista» in merito alla situazione nel paese. Le recenti riforme politiche offrono in effetti nuove possibilità di sviluppo, ha affermato all’Agenzia telegrafica svizzera.
Per i ministri degli affari esteri dell’Ue, la sospensione per un anno delle sanzioni vuole essere un incoraggiamento per «intensificare il dialogo con il Myanmar e sostenere lo sviluppo economico, politico e sociale intrapreso dal paese».
Una decisione prematura?
Sulla stampa internazionale, alcuni osservatori fanno tuttavia notare che le ragioni per le quali sono state adottate le sanzioni – e cioè le violazioni dei diritti umani – persistono.
Le violenze nei confronti delle minorità etniche commesse dallo stato continuano a essere un problema serio, osserva la rivista statunitense The Nation, ricordando in particolare il conflitto in atto nello Stato settentrionale del Kachin. Ostilità che hanno costretto alla fuga almeno 75’000 civili, rileva l’ong Human Rights Watch.
Diversi collettivi per la promozione di diritti umani in Myanmar, tra cui l’Associazione Svizzera-Birmania, fanno poi notare che un migliaio di oppositori politici continuano a essere dietro le sbarre. Inoltre, malgrado la vittoria elettorale dell’opposizione, il Parlamento rimane controllato dai militari o dai loro alleati.
La sospensione delle sanzioni è quindi stata prematura? «Non credo, anche se è vero che permangono molte violazioni», afferma a swissinfo.ch Thomas Biersteker, professore all’Istituto di alti studi internazionali e dello sviluppo di Ginevra.
La decisione dell’Ue, osserva l’esperto di sanzioni internazionali, rientra nel quadro della relazione negoziale che c’è tra chi impone le sanzioni e chi le subisce.
Sanzioni per dialogare
«Al momento di sospendere le sanzioni, la situazione nel paese interessato è spesso lontana dall’essere perfetta», rileva Biersteker, il cui lavoro si concentra principalmente sulle sanzioni dell’ONU. Si può sempre fare di più, prosegue, ma a un certo punto è necessario compiere un primo passo per promuovere ulteriori riforme.
«Sospendendo le sanzioni si continua a mantenere la pressione. Al contempo si dimostra però una certa flessibilità. Le sanzioni non vanno utilizzate a titolo punitivo, ma devono essere un incentivo che si inserisce in un dialogo continuo tra le parti».
In questo contesto, le sanzioni possono rimanere “in vigore”, senza per questo essere “applicate”. Thomas Biersteker cita l’esempio di paesi in conflitto quali la Liberia o la Repubblica Democratica del Congo. «Al momento della firma di accordi di cessate il fuoco o del lancio di negoziati per un sistema multipartitico, le sanzioni sono in vigore. Queste vengono però applicate nel momento in cui le parti contravvengono agli impegni assunti».
Da notare, sottolinea Biersteker, il caso della Liberia. «È la stessa Ellen Johnson Sirleaf [presidente della Liberia] a voler mantenere le sanzioni per evitare appunto che qualcuno possa disturbare il processo di transizione».
Mancanza di volontà
Le sanzioni internazionali previste dall’Unione europea, dagli Stati Uniti o dalle Nazioni Unite, spiega il professore, sono simili. Tutte hanno un target ben specifico: personalità, partiti politici, società, settori economici oppure una determinata regione del paese (ad esempio il Darfur in Sudan).
La sola differenza è la scala su cui vengono adottate. «Le sanzioni dell’Ue sono applicate “soltanto” dai 27 Stati membri. Quelle onusiane vengono adottate da tutti i membri delle Nazioni Unite e dunque da un maggior numero di paesi».
Tuttavia, puntualizza, ciò non significa che le sanzioni dell’ONU siano più efficaci. Anzi. «Le sanzioni europee sono spesso più dettagliate e complete, dal momento che il compromesso politico è più facile da trovare».
Va inoltre considerato che alcuni paesi non hanno sempre la capacità, o la volontà, di implementare le sanzioni. «Basti pensare ai paesi limitrofi, i quali intrattengono legami particolari con lo Stato sanzionato».
Limitare invece di forzare
Le sanzioni non hanno sempre un effetto positivo, riconosce Biersteker. In particolare quando non si dispone delle necessarie conoscenze sulla situazione o quando il paese sanzionato viene trascurato dalla comunità internazionale. Come successo in Somalia. «Non è stato formato alcun gruppo di esperti e non si sapeva dove focalizzare gli sforzi. Non c’era alcuna forza politica da sostenere».
Inoltre, sottolinea l’esperto, le sanzioni possono rafforzare il ruolo autoritario di un regime. «Lo stato è più presente nell’economia nazionale. Ci possono poi essere conseguenze umanitarie».
Sulla base di uno studio su 20 anni di sanzioni dell’ONU, da lui co-diretto, Thomas Biersteker è giunto a un importante conclusione. «Le sanzioni sono più efficaci quando si tende a “limitare” un certo comportamento. Lo sono al contrario meno quando si “costringe” a cambiare il proprio modo di agire».
«Lo si è notato lo scorso anno in Libia, quando le sanzioni hanno ristretto la capacità di Gheddafi di accedere ai fondi per importare armi e sostenere le forze mercenarie».
Stati Uniti e Unione europea hanno imposto sanzioni al Myanmar a metà anni Novanta a causa delle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla giunta militare.
Il governo svizzero ha adottato le sanzioni europee nel 2000.
Queste comprendono il divieto di fornire materiale d’armamento e beni che potrebbero essere utilizzati a scopo di repressione; restrizioni commerciali riguardanti legno, carbone, metalli e pietre preziose; sanzioni finanziarie nei confronti di persone fisiche e imprese; divieto d’ingresso e transito per determinate persone fisiche.
In seguito alle riforme intraprese dal presidente Thein Sein, in carica dal marzo 2011, l’Unione europea e diversi paesi quali gli Stati Uniti, l’Australia, la Norvegia e la Svizzera hanno annunciato la sospensione della maggior parte delle sanzioni (permane però l’embargo sulle armi).
Le sanzioni internazionali sono uno strumento per imporre la pace e la sicurezza.
Possono essere decretate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e da altre organizzazioni regionali, come l’Unione europea.
In quanto membro dell’ONU, la Svizzera è tenuta a rispettare le sanzioni decise dal Consiglio di sicurezza. È invece libera di adottare o meno le sanzioni europee.
Le sanzioni generali si applicano agli Stati e ai loro cittadini indistintamente e spesso hanno notevoli ripercussioni umanitarie negative sulla popolazione civile e su Stati terzi.
In seguito alle esperienze negative fatte con le sanzioni contro l’Iraq negli anni 1990, oggi l’ONU decreta solo sanzioni mirate. Queste sono rivolte direttamente a persone fisiche e giuridiche responsabili di violazioni della pace o che minacciano la sicurezza internazionale.
Attualmente la Svizzera impone sanzioni nei confronti di: Irak, Liberia, Zimbabwe, Costa d’Avorio, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Bielorussia, Corea del Nord, Myanmar, Libano, Iran, Somalia, Guinea, Eritrea, Libia e Siria.
I provvedimenti valgono anche per persone o organizzazioni legate ad Al Qaeda o ai Talebani, persone dell’ex Jugoslavia e persone in relazione all’attentato a Rafik Hariri
(fonti: Dipartimento federale degli affari esteri; Segreteria di Stato dell’economia)
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