Un funzionario svizzero per la democrazia: “Vogliamo favorire una narrazione più positiva”
La Svizzera è impegnata a promuovere la democrazia nel mondo per mandato costituzionale. Simon Geissbühler, del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), parla delle sfide da affrontare in un’epoca di regressione globale dei valori democratici.
Il report annuale della fondazione per la democrazia IDEA, pubblicato a inizio novembre, denuncia nuovi progressi autocratici, con risultati poco promettenti per i sostenitori e le sostenitrici della democrazia in tutto il mondo. Sempre questa settimana, in Svizzera, è uscito anche un nuovo libroCollegamento esterno, Democracy and Democracy Promotion in a Fractured World (La democrazia e la promozione dei valori democratici in un mondo diviso), a cura di Simon Geissbühler, capo della Divisione Pace e Diritti Umani del DFAE. SWI swissinfo.ch ha parlato con lui in occasione della presentazione del libroCollegamento esterno, a Berna.
SWI swissinfo.ch: Le democrazie di tutto il mondo sono in difficoltà da anni. Si può dire lo stesso anche della promozione dei valori democratici?
Simon Geissbühler: Beh, il fatto che oggi tante democrazie stiano vivendo una regressione può essere una buona occasione per impegnarsi a promuoverne il valore. L’importante è adattare l’approccio utilizzato, perché non si tratta più di portare la democrazia in Paesi non democratici. Se da un lato il supporto tramite la cooperazione allo sviluppo o le missioni elettorali non manca mai, una nuova possibilità è anche quella di favorire una “resilienza democratica”, cioè di supportare democrazie esistenti ma sottoposte a forti pressioni interne o esterne.
Pensiamo all’Ucraina: cosa si può fare in un momento di forte tensione come questo per aiutarla a mantenere vivi elementi democratici come la libertà d’espressione, la partecipazione e una società civile vivace? Comprensibilmente, durante una guerra si tende a chiudersi e a centralizzare tutto, ma è importante cercare di fare in modo che i progressi compiuti in termini di democrazia e società civile non vengano annullati. Nel caso della Svizzera, l’interazione con Paesi come Botswana e Ghana (altre democrazie sottoposte a una discreta pressione) può costituire un nuovo tipo di approccio.
Come si fa a far competere le politiche di promozione della democrazia con campagne di disinformazione antidemocratica su larga scala come quelle portate avanti dalla Russia e da altri Stati analoghi?
Per quanto riguarda la Russia in sé possiamo fare ben poco, perché è un ambiente troppo chiuso. Quanto ai suoi tentativi di minare la democrazia all’estero, anche in questo caso non è semplice, perché non siamo abituati a contrattaccare. Come ho detto, il nostro compito consiste perlopiù nel sostenere le democrazie sotto pressione. Il sostegno economico e gli aiuti allo sviluppo svolgono un ruolo fondamentale in questo senso, dal momento che, per essere credibili, questi Paesi devono ottenere dei risultati da presentare alla popolazione.
L’obiettivo della Svizzera per i prossimi anni, oltre a promuovere l’idea di una resilienza democratica, sarà di favorire una narrazione più positiva e di illustrare con maggior vigore i lati positivi della democrazia, in un momento in cui la tendenza è di parlarne male. Vogliamo adottare un approccio basato sulla collaborazione, più che sul moralismo, per imparare dagli altri Paesi anziché limitarci a insegnare loro ciò che sappiamo.
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La situazione per le iniziative a sostegno della democrazia è così desolante?
I principali obiettivi della promozione democratica tra i primi anni Novanta e i primi anni Duemila, quindi l’Europa centrale e dell’Est, sono stati raggiunti, almeno in una certa misura. C’è ancora qualche problema qui e là, ma persino un paese come l’Ucraina, che è tutt’altro che perfetto, ha beneficiato di passaggi di poteri, libertà di stampa e di una società civile attiva e vivace. Può darsi che la democrazia sarebbe arrivata nella regione in ogni caso, perché quei Paesi erano in condizioni favorevoli alla transizione, ma è stato comunque un successo.
Ormai sono passati più di dieci anni dalla Primavera araba che aveva fatto sperare in un’ondata di democratizzazione in Medio Oriente e Nord Africa. Che cosa è andato storto?
Il movimento della Primavera araba è nato dall’interno dei Paesi, non dall’esterno, cosa fondamentale per l’istituzione di una democrazia: deve essere qualcosa che ha origine in loco, non la si può imporre. La scintilla che ha fatto scattare la Primavera araba era anche segno di un forte desiderio di democrazia in tutto il mondo, anche se non è stato definito necessariamente in questi termini, ma più come un desiderio di partecipazione, responsabilizzazione e libertà fondamentali.
Quanto a cosa sia andato storto, in qualità di diplomatico svizzero non posso sbilanciarmi troppo! C’è chi dice che noi [democrazie occidentali] non abbiamo mantenuto un approccio coerente: abbiamo sostenuto il cambiamento, ma forse in maniera meno appassionata e incondizionata di quanto non avremmo potuto. In definitiva, però, se è vero che la Primavera araba è nata all’interno dei Paesi coinvolti, c’erano altre forze interne che hanno finito per prevalere. È molto difficile trarne delle conclusioni dirette, perché ancora si fatica a comprendere le dinamiche di quanto è avvenuto in Tunisia o in Egitto.
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Fino a che punto la promozione della democrazia diretta (elezioni e referendum) rientra tra le iniziative svizzere all’estero?
La democrazia diretta della Confederazione è qualcosa di unico, tanto da costituire il cuore di quello che potremmo chiamare eccezionalismo democratico svizzero. Si tratta di una formula che non si può trasporre inalterata altrove. Detto questo, le generazioni giovani di altri Paesi sono particolarmente interessate alla natura partecipativa della democrazia svizzera: se altrove le elezioni avvengono ogni quattro anni (spesso con scelte limitate), le cittadine e i cittadini svizzeri possono votare fino a quattro volte l’anno su questioni concrete. A livello locale, in altri contesti, ci sono situazioni in cui la democrazia diretta può favorire la legittimità e la possibilità di trovare delle buone soluzioni.
I raduni di Paesi liberi, per esempio i summit per la democrazia come quelli organizzati dagli Stati Uniti nel 2021 e 2023, servono a qualcosa o non fanno che inasprire il divario tra Paesi democratici e quelli che non lo sono?
Non sono molto convinto dell’idea di dividere nettamente il mondo tra aree democratiche e autocratiche. La democrazia si manifesta in un ampio ventaglio di forme, la cui via di mezzo è molto interessante e promettente dal punto di vista di un possibile sostegno. Ovviamente non bisogna illudersi: le autocrazie cercano attivamente di minare le democrazie e tra i due sistemi vige una forte competizione. Ma distinguere un gruppo autocratico di “Paesi che non ci piacciono” va comunque contro l’approccio svizzero a favore del dialogo e dell’interazione.
Per quanto riguarda il Summit per la democrazia, è vero che non è riuscito a ottenere tutto ciò che speravamo, anche per ragioni di legittimità, considerati i problemi interni che gli Stati Uniti si sono trovati ad affrontare in questi ultimi anni. Per la Svizzera però è stato utile, perché ci ha spinto a riflettere sulla posizione da assumere per dare il nostro contributo a livello internazionale. I contenuti del libro sono derivati proprio da due dei ritiri di alto livello organizzati nel 2022 e 2023 per discutere dei problemi della democrazia nel contesto dei summit.
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Traduzione: Camilla Pieretti
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