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Un maestro nell’arte di rimanere al potere

Giulio Andreotti, scomparso lunedì a Roma all'età di 94 anni Keystone

“Intrigante”, "machiavellico” e “luciferino”, ma anche “scaltro”, “intelligente” e “pragmatico”: così la stampa svizzera ricorda la figura di Giulio Andreotti. Secondo gli osservatori, nessuno meglio di lui padroneggiava l’arte di equilibrare i rapporti tra le forze politiche.

“Una guerra mondiale, sette papi, monarchia, fascismo, la prima e la seconda repubblica: Andreotti, che era riuscito a scivolare attraverso tutto questo, si denominava ‘un sopravvissuto’. Nominato segretario di Stato nel 1946, a 27 anni, da allora aveva sempre seduto in parlamento, era stato sette volte presidente del Consiglio e dozzine di volte ministro, figurava tra i padri fondatori della Repubblica italiana ed era diventato per finire senatore a vita”, ricordano il Tages-Anzeiger e il Bund.

“Era considerato impenetrabile, enigmatico, furbo, scaltro. Mandarino, così lo chiamavano i suoi nemici politici, di cui ne aveva molti, sia in Italia che all’estero. Per altri, era belzebù, l’incarnazione del male nella politica, la quintessenza di un machiavellismo intrigante, l’espressione di un cinismo che mirava soltanto a rimanere al potere”, aggiungono i due quotidiani di Zurigo e Berna, per i quali Andreotti era permanentemente accompagnato da un “odore di zolfo”.

“Il potere logora soltanto chi non ce l’ha”, soleva dire l’uomo politico, rammentano ancora i due giornali. “Come nessun altro, Andreotti incarnava un miscuglio romano tra leggerezza e sete di potere, un ‘genius loci’ tipico della città eterna: la certezza che nessun regno e nessuna potenza durano in eterno. Proprio questo lo ha spinto a diventare un politico pragmatico, a rimanere estraneo ad ogni sorta di fanatismo”, sottolineano il Tages-Anzeiger e il Bund, secondo i quali Andreotti è stato soprattutto un “camaleonte della vecchia Europa, con una capacità di adeguarsi che lascia trasparire una forma particolare di intelligenza”.

Figura stabile in un’Italia instabile

“Giulio Andreotti aveva dichiarato un giorno di non sapere esattamente a quanti governi italiani avesse partecipato. E bisogna credergli, in quanto il giurista e giornalista aveva contrassegnato come nessun altro la prima repubblica italiana, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino allo scandalo ‘Tangentopoli’ all’inizio degli anni ’90”, rileva la Neue Zürcher Zeitung. Andreotti, che padroneggiava meglio di tutti “l’arte di equilibrare i rapporti di forza, di mediare e patteggiare nelle anticamere dei palazzi romani”, ha rappresentato una “figura di stabilità in un’Italia instabile”.

“Dal 1945, Andreotti non è mai più sparito dalla scena politica italiana. È stato un vero maestro nell’arte di rimanere al potere”, osserva anche la Berner Zeitung. “Nessuno, meglio di lui, conosceva i baratri e gli angoli più reconditi della politica italiana. Andreotti è stato l’emblema umano della storia del Dopoguerra, aggiunge il quotidiano bernese, secondo il quale “l’uomo politico democristiano non ha raffigurato però la coscienza morale dell’Italia, ma piuttosto il suo specchio in continua trasformazione”. 

“La figura di Andreotti incarna da sola le contraddizioni italiane più irriducibili: senso del compromesso e della compromissione, potere e forze oscure (mafia). Sotto di lui, la Democrazia cristiana è stata un miscuglio intelligente di correnti politiche e di machiavellismo, in grado di unire anche l’acqua e il fuoco, Don Camillo e Peppone, la destra cattolica e il Partito comunista”, afferma La Liberté. “Ironia della storia, proprio mentre scompare il dinosauro della vita pubblica, l’Italia si è data il suo più giovane primo ministro”, rileva ancora il foglio friburghese.

Nato nel 1919 a Roma, Giulio Andreotti era entrato in politica a 27 anni, nell’ambito della Federazione universitaria cattolica Italiana e poi nella Democrazia cristiana.

Dal 1948 è stato presente in Parlamento: fino al 1991 come deputato e poi come senatore a vita.


Giulio Andreotti è stato sette volte presidente del Consiglio. Ha ricoperto tale incarico anche nell’ambito del governo di solidarietà nazionale durante il rapimento di Aldo Moro e nell’ambito del cosiddetto governo della «non-sfiducia» (1976 – 1977).


È stato inoltre 19 volte ministro: 8 volte ministro della difesa; 5 volte ministro degli esteri; 3 volte ministro delle partecipazioni statali; 2 volte ministro delle finanze, ministro del bilancio e ministro dell’industria; 1 volta ministro del tesoro, ministro dell’Interno e ministro dei beni culturali e ministro delle politiche comunitarie.

Andreotti è stato sottoposto a Palermo ad un processo per associazione a delinquere. La sentenza di primo grado del 1999 lo aveva assolto, ma quella d’appello, nel 2003 ha concluso che il reato era da considerarsi estinto per prescrizione.

È stato anche processato per il coinvolgimento nell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Secondo i magistrati, Andreotti avrebbe commissionato il delitto, perché Pecorelli aveva denunciato scandali relativi a finanziamenti illegali della DC. La Corte di cassazione ha annullato la sentenza d’appello, che condannava Andreotti a 24 anni di carcere, quale mandante dell’omicidio.

Soave e luciferino

“Tutto di lui era da tempo diventato leggendario. L’intelligenza astuta, la gobba, la capacità d’incassare impavido accuse tremende, l’asserita partecipazione a trame tenebrose e magari criminali senza lasciare tracce, la longevità politica, le battute ciniche, i «visti da vicino» nei quali concedeva alla confessione personale solo quel tanto o quel poco che bastasse per ravvivare il racconto senza in buona sostanza rivelare nulla”, ricorda il Corriere del Ticino.

“Ci fu chi lo bollò come ‘belzebù’, attribuendogli ogni sorta di nequizie, o come baciapile, sottintendendo così una sudditanza alla Chiesa; e ci fu chi volle vedere in lui un esempio luminoso di condotta umana e politica. Impersonò per decenni l’anticomunismo senza se e senza ma, non ebbe alcuna repulsione – diversamente da tanti politici anche del suo partito – per l’apporto dei voti di destra, ma poi capeggiò i governi della ‘solidarietà nazionale’ contrassegnati dalla collaborazione tra la DC e il PC”, aggiunge il giornale ticinese.

“I processi per mafia che contro di lui furono intentati, e che si conclusero con un’assoluzione secondo i colpevolisti simile una condanna, avrebbero stroncato chiunque non avesse la corazza da tartaruga e l’imperturbabilità che proteggeva Andreotti”, prosegue il Corriere del Ticino. “Con quell’espressione soave e un po’ luciferina pareva fatto apposta per essere accusato (ma, bisogna ricordarlo a suo onore, non è mai stato coinvolto seriamente negli scandali finanziari che hanno segnato il percorso della Democrazia cristiana)”.

Cinismo e grandezza

Il potere interpretato da Andreotti non era “solo (apparentemente) impermeabile alle più tragiche tensioni della società, ma capace di farne motivo di una propria necessitata legittimazione. Nelle più drammatiche temperie conosciute dall’Italia (alla guida del governo arrivò per la prima volta nel 1972, nel pieno della contestazione politica, sociale e generazionale) Andreotti ha tenuto salda la barra, non in forza di uno scrupolo etico (del quale avrebbe sorriso), ma di un accuratissimo calcolo. Un “metodo” affinato e confermato nel tempo”, scrive La Regione.

“Al nemico mortale ‘abbandonò’ una preda che nel tempo si rivelò piuttosto un’esca; all’avversario non redimibile concesse posti di governo, così da castrarne le residue velleità di lotta. Per sé – spalle larghe e consolidata propensione all’ironia – serbò il ruolo di simbolico capro espiatorio delle vacue sfuriate di pubblicisti, vignettisti, movimenti, vere o finte opposizioni. Colpevole di ogni male, ‘innocente’ in tutti i processi. Appuntandosi al petto come onorificenze le più fantasiose definizioni trovate per lui dagli avversari. Qualcuno lo chiamò cinismo, altri ancora oggi la chiamano grandezza”.

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