Primi giri di pista per l’LHC
Il momento resterà impresso nella storia. Sono le 10:28 del 10 settembre 2008. Alle porte di Ginevra un fascio di protoni ha concluso il primo giro di 27 Km del più potente acceleratore del mondo. È il primo risultato di 20 anni di lavori e l'inizio di una nuova era di scoperte.
Gli scienziati festeggiano con sobrietà. Gli applausi nelle sale di controllo del CERN sembrano contenuti. Come se la gioia fosse interiorizzata.
Eppure queste persone, fisici e ingegneri, che si scambiano congratulazioni hanno appena reso possibile, per parafrasare un celebre citazione, “un piccolo percorso per un protone, ma un grande passo per l’umanità”.
Un passo molto mediatizzato. Mai prima di quel momento, l’ex Palazzo dell’Equilibrio dell’Expo 02, una grande sfera di legno trasferita in terra ginevrina, aveva accolto così tanti giornalisti. Ce ne sono più di trecento, provenienti da tutto il pianeta. I loro occhi sono puntati sugli schermi giganti, dove si succedono comunicazioni tecniche, conferenze stampa e duplex.
Al tocco di mezzogiorno, il team americano di Fermilab fa un brindisi alla salute del primo successo dell’LHC. A Chicago è mezzanotte. Ma cosa importa? I colleghi di oltre oceano, che scherzosamente indossano il pigiama e la cuffia da notte, si uniscono ai festeggiamenti dell’esperimento cui hanno partecipato. Così come i giapponesi, gli indiani, i canadesi e tutti gli altri.
Al miliardesimo di secondo
“Ero certo che avrebbe funzionato. Ma non pensavo che sarebbe riuscito così in fretta”, commenta Daniel Denegri, del Centro nazionale francese della ricerca scientifica (CNRS), un veterano della fisica delle particelle.
Meno di un’ora per riuscire a guidare un fascio di particelle. Dapprima per alcuni tratti, poi su un giro completo dell’anello. È nettamente meglio delle 12 ore impiegate per l’operazione analoga quando venne messo in funzione il LEP, il predecessore dell’LHC.
L’impresa è di una complessità incredibile. È il coronamento di anni di concezioni, di costruzioni, di aggiornamenti per arrivare a sincronizzare al miliardesimo di secondo le migliaia di componenti della macchina.
“La sfida principale è mantenere i protoni all’interno del tubo”, spiega Denegri. Se uscissero potrebbero perforare un magnete di conduzione.
I fasci circolano dunque all’interno di un campo magnetico e i tubi servono soltanto a creare il vuoto che consente loro di accelerare senza incontrare ostacoli. Se fosse stato possibile costruire l’LHC nello spazio i tubi non sarebbero nemmeno stati necessari.
Prima tappa
“Questa macchina è sicuramente più complessa delle navicelle spaziali che hanno portato l’uomo sulla luna”, spiega lo scienziato John Ellis. “Ma quel che è appena stato conseguito è solo una tappa di un lungo cammino”.
Una tappa supplementare è già superata il pomeriggio dello stesso giorno. Un secondo fascio di protoni compie un giro in senso inverso del primo. Nell’intervallo tra le due fasi, gli ingegneri hanno regolato il sistema di raffreddamento, che costituisce il “più grande congelatore” del mondo.
Fra qualche settimana avverranno le prime collisioni dei due fasci che circolano in senso inverso. Si inizierà a livelli energetici bassi. Poi la potenza salirà progressivamente.
Occorrerà allora procedere a misurazioni e calibrature dei quattro grandi rilevatori che permetteranno di interpretare i risultati delle collisioni.
“Si comincerà a fare fisica fra qualche mese e si raggiungerà il rendimento a pieno regime fra tre anni”, rileva Daniel Denegri. “Sono sicuro che il bosone di Higgs esista. Questa macchina permetterà di trovarlo”.
Infatti, la ricerca di questa particella che spiegherebbe perché le altre hanno una massa è uno degli obiettivi del nuovo acceleratore. Ma potrebbe anche esistere solo sulla carta. “In tal caso, ci sono teorie alternative. L’LHC consentirà di verificare anche quelle”, promette il fisico francese.
La fine del mondo non arriverà domani
E il famoso buco nero che secondo taluni sarebbe provocato dagli esperimenti del CERN e inghiottirebbe la Terra o persino tutto l’universo?
“Non c’è assolutamente alcun rischio. Siamo bombardati ogni giorno da particelle venute dallo spazio, con molta più energia dei nostri protoni, e non succede nulla”, ribadisce lo scienziato.
Una certezza condivisa da tutta la comunità dei fisici, i quali sottolineano che i minuscoli buchi neri che l’LHC potrebbe eventualmente creare non avranno mai la massa necessaria per inghiottire alcunché e che scompariranno in una frazione di secondo.
Ciò nonostante, il giorno dell’avvenimento storico, un giornale gratuito ha lanciato un forum Internet per chiedere ai suoi lettori cosa farebbero se all’indomani ci fosse la fine del mondo…
Su un’altra pagina, lo stesso quotidiano, spiega che un buco nero potrebbe formarsi solo se precipitasse una stella con una massa 25 volte superiore a quella del nostro sole!
Scovate l’errore…
swissinfo, Marc-André Miserez
(Traduzione dal francese di Sonia Fenazzi)
L’LHC – grande collisore di adroni – è un anello doppio con una circonferenza di 27 chilometri, nel quale vengono proiettati dei fasci di protoni che circolano nei due sensi per poi farli scontrare.
Guidati e accelerati tramite oltre 1800 magneti superconduttori. I protoni raggiungono una velocità vicina a quella della luce e accumulano un’energia tale da creare nuove particelle quando entrano in collisione. L’energia si trasforma così in materia, in virtù della famosa formula di Einstein E = MC2.
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