Sulle orme degli antichi cercatori di cristalli
Nelle Alpi svizzere, un gruppo di archeologi e archeologhe si sta dedicando all’esplorazione di una particolare miniera che pare risalire addirittura all’8'000 a.C. I frammenti di cristalli alpini che vi sono stati ritrovati costituiscono preziosi indizi di come la popolazione di cacciatori e raccoglitori utilizzasse l’unico sito preistorico per l’estrazione di cristalli attualmente noto nella regione. La nostra reporter ha seguito l’operato del gruppo archeologico per tutti i tre anni del progetto, che terminerà a dicembre del 2022.
Il rumore sordo dei ramponi riecheggia contro quel che rimane del ghiacciaio del Brunnifirn, nella Svizzera centrale. Ad ogni pausa, riusciamo a sentire il gocciolio del ghiaccio che si scioglie sotto i nostri piedi. Il panorama attorno a noi, in questa giornata di fine estate, è quasi ultraterreno: un anfiteatro di neve ormai vecchia e fessurata, circondato da una serie di cime frastagliate e brulle.
Nell’età della pietra, gli antichi cacciatori e raccoglitori perlustravano ogni angolo delle Alpi alla ricerca di cristalli. Sebbene possa sembrare un’immagine molto new age, la loro missione non aveva nulla di spirituale né di mistico. Quel che volevano erano semplicemente delle pietre scintillanti da trasformare con artigianale perizia in punte di freccia, lame, punteruoli e altri utensili.
L’archeologo indipendente Marcel Cornelissen, un affabile quarantacinquenne appassionato di sport di montagna, insegue questi antichi minatori e minatrici da anni, cercando di far rientrare il suo lavoro sul campo nelle brevi finestre concessegli dalle stagioni, dalla copertura nevosa e dal meteo. Questa spedizione, iniziata nel settembre del 2020, si è concretizzata solo grazie al progressivo ritiro del ghiacciaio e alla segnalazione di un cercatore di cristalli dei giorni nostri, il quale è incappato in un mucchio di schegge di cristallo, due palchi di corna e dei pezzi di legno mentre era alla ricerca di minerali.
Corna di cervo a 2’831 metri, una quota considerata inospitale per la maggior parte di flora e fauna? Gli archeologi come Cornelissen devono fare continuo affidamento sulle indicazioni del pubblico, in particolare nelle aree più remote. Uno dei palchi di corna si è disintegrato subito dopo lo scongelamento, ma esperti ed esperte del settore sono riusciti a datare il secondo al 6’000 a.C., cosa che lo rende il più antico reperto del suo genere mai ritrovato tra i ghiacci alpini. Per intenderci, è ben più antico di Ötzi, la mummia di un uomo morto sulle Alpi italiane intorno al 3’200 a.C. ritrovata nel 1991.
I segni visibili sul palco di corna sembrano suggerire che sia stato utilizzato per estrarre cristalli di quarzo. Secondo l’istituto Culture delle Alpi, che ha commissionato la ricerca condotta da Cornelissen, si tratterebbe dell’unico sito di estrazione di minerali di epoca preistorica noto nella regione del Gottardo. Altri siti sono stati individuati un centinaio di chilometri più a sudest, nelle valli del Sempione e di Binntal, nel canton Vallese.
Lo scavo
In questa mattinata di settembre, è Cornelissen stesso il “minatore” che si occupa dello scavo per conto del Dipartimento per la tutela dei monumenti storici e per l’archeologia del Cantone Uri. È la terza volta che viene sul ghiacciaio del Brunnifirn in cerca di reperti, nella speranza di trovare altro prima della chiusura del progetto, prevista per la fine di settembre 2022. Da quanto scoperto finora, pare che il sito sia stato utilizzato come miniera di cristalli fin dall’8’000 a.C.
“Sarebbe bello trovare qualche altro reperto per poterlo affermare con sicurezza”, mi dice. “Mi piacerebbe anche riuscire a raccogliere abbastanza materiale per capire meglio come procedessero all’estrazione all’epoca”.
Nel frattempo, tre dei suoi colleghi e colleghe sono impegnati a scavare un fazzoletto di terra in cima a un dosso di roccia affacciato sul ghiacciaio. Privo di neve, misura circa sei metri quadrati. Lo spazio è poco, per cui cerco di tenermi in disparte, rimanendo appollaiata su una grossa roccia che, nella parte inferiore, è tempestata di minuscoli cristalli di quarzo fumé, così aguzzi da farmi sanguinare le dita ma così fini che non sento alcun dolore.
La parte iniziale dello scavo è tutt’altro che delicata. Per fare spazio, Annina Krüttli e gli altri membri del gruppo archeologico gettano grandi palate di sassi e pietre giù per la collina. Vanghe e cazzuole si alternano rumorosamente, risuonando contro le rocce.
Krüttli si prende una pausa per illustrarmi la strategia seguita per trovare preziosi reperti archeologici: “Di fatto, a noi interessa arrivare a quella che si può definire terra, mentre all’inizio ci ritroviamo con una gran quantità di rocce”, spiega. “La superficie del terreno può riservare scoperte interessanti, per cui ne rimuoviamo circa cinque centimetri di spessore, trasferendolo in appositi sacchi che portiamo con noi per analizzarli”.
Ora della fine, ci vuole un elicottero per portare gli oltre 60 sacchi così riempiti fino al villaggio di Sedrun, da cui verranno poi trasportati via terra. Le robuste buste in plastica non sono altro che sacchi della spazzatura, che all’inizio mi sembravano una scelta troppo banale per contenere potenziali reperti preziosi. Come sottolineato da Cornelissen, invece, sono l’ideale per questo lavoro: “Quelli che stiamo raccogliendo sono scarti di lavorazione, cose che quella gente non voleva più e che invece noi ci prendiamo”.
Saranno anche stati la “spazzatura” dei costruttori di utensili della preistoria, ma quegli oggetti hanno una loro bellezza. Cornelissen mi mostra un frammento di cristallo appena scoperto: ha una forma vagamente triangolare e, al suo occhio esperto, è chiaramente opera di una mano umana.
“Non è un utensile o che. È spazzatura, lo scarto del processo produttivo”, spiega. La forma corrisponde a quella di altri reperti trovati in siti svizzeri risalenti a 8’000 anni fa ed è possibile che nessuno lo abbia più tenuto in mano da allora.
“Non c’erano fattorie, chiese, nessun tipo di edificio permanente, ma quelle persone sono passate di qui e hanno estratto questi cristalli di roccia”. Fa un certo effetto, a pensarci, soprattutto se si paragona quello che è stato lasciato allora con i rifiuti d’epoca moderna, come carte di caramelle e bottiglie di plastica.
Marcel infila il frammento di cristallo in una bustina trasparente insieme a un foglio di carta in cui ha riportato la posizione esatta della scoperta e sigilla il tutto. Nei due giorni successivi, ripeterà la stessa procedura per tutti i reperti più promettenti. Il resto, incluso il terriccio, finirà nei sacchi neri, anch’essi rigorosamente etichettati.
Tempo e spazio
Il sole si fa sempre più basso all’orizzonte e anche la temperatura cala: è ora di andare. Calziamo i ramponi e ci leghiamo di nuovo in cordata. Sotto i nostri piedi, l’acqua di fusione del ghiacciaio continua a gorgogliare: è un suono allegro, ma serve anche a ricordarci dei cambiamenti a cui è soggetto il paesaggio che ci circonda. Tra il 1973 e il 2010, il ghiacciaio del Brunnifirn ha perso quasi un quarto della propria massa, riducendosi da 3,02 km2 a 2,31 km2Collegamento esterno. Dall’altro lato del ghiacciaio, a 2’649 metri di altitudine, ci attendono la cena e i letti a castello della capanna Cavardiras.
Chissà se anche gli antichi cercatori e cercatrici di cristalli avranno dormito quassù? Cornelissen è convinto di sì, perché ha ritrovato diversi utensili nella zona: strumenti semplici, probabilmente prodotti in loco per essere usati giusto un paio di giorni.
“Non sono passati di qui qualche ora a prendere qualche cristallo da portare via. No, probabilmente hanno allestito un campo, forse hanno trascorso qui la notte, hanno riparato la propria attrezzatura e il proprio vestiario, magari hanno mangiato qualcosa e il giorno dopo sono ripartiti”, spiega.
Comprendere il ciclo stagionale dell’estrazione dei cristalli potrebbe aiutare a far luce sui movimenti della popolazione dell’epoca sul territorio: l’ascesa della montagna poteva essere parte di una battuta di caccia, oppure è possibile che i cristalli di quarzo avessero un determinato valore sociale, come tra le collezioniste e i collezionisti di minerali odierni. Nessuno può saperlo. L’area, però, è totalmente priva di selce, la pietra più usata nella produzione di utensili preistorici.
La mattina seguente io devo tornare a casa e così anche l’archeologo Christian Auf der Maur, anche se lui preferirebbe continuare a scavare. Alto e dal passo sicuro, si offre di percorrere insieme a me la difficile traccia che sale ripida tra sassi e neve fino alla vetta, prima di scendere su verdi prati punteggiati di fiori colorati e piante di mirtillo. Ci impieghiamo ore, ma è un’ottima occasione per parlare degli scavi.
Come fanno lui e i suoi colleghi ad accettare i limiti di tempo e spazio imposti alla loro ricerca? In fondo, chi dice che non ci siano reperti straordinari in attesa di essere dissotterrati qualche metro più in là?
“È la vita dell’archeologo. In uno scavo, quasi sempre si è costretti a lasciare qualcosa. Bisogna imparare a conviverci e a sfruttare al meglio dati e ritrovamenti da portare in laboratorio”, risponde Auf der Maur, che lavora per l’Ufficio per la tutela dei monumenti, l’archeologia e la protezione degli insediamenti del canton Uri. Il gruppo spera di aver individuato tutti i reperti più importanti presenti nell’area. Prima della fine del progetto, a dicembre 2022, avranno ancora un paio di occasioni per ispezionare altri siti in zona.
Lavaggio e categorizzazione
Due mesi più tardi, Cornelissen mi accoglie fuori da un magazzino nella Svizzera orientale. Al posto dell’attrezzatura da montagna ora indossa guanti di gomma e un grembiule impermeabile, perché lui e Krüttli si stanno dedicando a setacciare i 976 chili di terriccio, rocce e cristalli raccolti sul Brunnifirn. Ora è tempo di dargli una bella pulita.
Man mano che i fiotti d’acqua lavano via la terra, ne emergono pietre scintillanti quasi quanto gli occhi di Cornelissen di fronte alle forme più promettenti. Dopodiché, inizia la fase più laboriosa: quella della classificazione manuale. Ore e ore acquattati accanto a un telone cerato, a selezionare i minerali lavati, mettendo quelli potenzialmente “validi” su appositi vassoi e gettando via grandi secchiate del resto.
Krüttli prende i pezzi più preziosi e li porta all’interno del magazzino, dove vengono distribuiti sulle griglie per l’asciugatura, senza mai perdere traccia di dove sono stati trovati. La meticolosa opera documentale svolta in loco paga: se un reperto viene ritenuto interessante, le relative annotazioni consentono di tornare nel punto preciso in cui è stato trovato per raccogliere ulteriori indizi. Anche se questo giro non dovesse riservare preziose scoperte, il valore archeologico del materiale raccolto sarebbe elevatissimo.
“Immaginiamo di avere 50’000 di queste schegge, tutte analizzate nel dettaglio: è il potere dei numeri”, spiega Krüttli, mentre controlla se ci sono vassoi abbastanza asciutti per essere inseriti nelle teche per la conservazione. “Solo così si riescono a dedurre informazioni su reperti che altrimenti potrebbero sembrare insignificanti”. Con un quantitativo sufficiente di dati, i ritrovamenti potranno essere inseriti in un contesto più ampio, che sia culturale, storico o ambientale. Ogni scheggia di roccia è un pezzo del puzzle che lega il passato al presente.
Il traffico scorre incessante sull’asfalto spazzato dal vento poco lontano, ma i ricercatori e le ricercatrici proseguono con convinzione nel loro faticoso lavoro manuale, necessario per inserire ogni pezzo nella giusta ottica. Alla fine di questa laboriosa procedura, tre giorni più tardi, i circa 300 chili di reperti così ricavati verranno trasferiti nella cantina privata di Cornelissen, alla periferia di Berna.
L’analisi
Nell’agosto 2021, Cornelissen mi invita a casa sua, dove tiene anche dei reperti relativi a progetti precedenti. Gli zoccoli di legno appoggiati fuori dalla porta d’ingresso rimandano alle sue radici olandesi, mentre all’interno robusti contenitori di plastica traboccano di potenziali collegamenti con i nostri comuni antenati e antenate, che hanno percorso le Alpi tra il 9500 e il 5500 a.C. Cornelissen versa una manciata di quarzi, cristalli e pezzi di granito sul tavolo della sua cucina. Aiutandosi con un paio di pinzette, una buona luce, una lente di ingrandimento e un misuratore, si mette ad analizzare il suo bottino.
“Questo non è male, mettiamolo tra i reperti. Questo invece? Direi tra i dubbi”, commenta, passando da un pezzo all’altro.
Esamina un frammento di quarzo non più grande di un dente come un gioielliere che valuti una gemma preziosa. Rigirandolo sotto il cono di luce e mormorando tra sé, ipotizza che potesse trattarsi del pezzo di una lama o di un utensile per praticare dei fori. Quindi procede a misurarlo ed etichettarlo, per poi sigillarlo in una bustina di plastica e inserire i dati sul suo computer. Adesso, il nuovo reperto fa parte delle tante centinaia classificate nei suoi fogli di lavoro, tra colonne piene di annotazioni sul materiale, la forma, le condizioni e le caratteristiche di ogni pezzo. Quanto al reperto in sé, Cornelissen lo inserisce in una scatola di plastica di quelle usate per le esche da pesca.
Alcuni dei suoi ritrovamenti migliori sono posizionati su un foglio di cartoncino nero, che aiuta a delineare i contorni tracciati da abili mani tante migliaia di anni fa. Mentre cerco di afferrare la profonda importanza di ciò che sto vedendo, mi tornano in mente le parole di Krüttli mentre lavava le pietre, fuori dal magazzino.
“In origine, questi cristalli devono essere stati enormi perché la popolazione di cacciatori e raccoglitori sia riuscita a ricavarne degli utensili. Per svilupparsi, un cristallo impiega molto, molto più tempo di quello trascorso tra quando è stato lavorato in questo modo e la nostra epoca”, spiega. “Perciò, è come se mi vedessi chi li ha intagliati nascosto dietro una roccia, a ridersela perché siamo arrivati un attimo troppo tardi”.
Da interi millenni a pochi anni o mesi: la ricerca archeologica di questi cercatori e cercatrici di cristalli preistorici potrebbe non finire mai. Grazie ai loro fogli di lavoro e all’attenta etichettatura di ogni reperto, però, archeologi e archeologhe stanno aprendo la strada a ulteriori analisi di questa fase della storia dell’umanità.
Cosa fare se si trova qualcosa di insolito
Lo scioglimento dei ghiacciai sta portando alla luce sempre nuovi reperti archeologici dalle datazioni più diverse, dall’età della pietra al XX secolo. Ognuno di questi oggetti costituisce un affascinante indizio sul nostro passato. Tutto ciò che è fatto di materiali organici, come pelle, pelliccia, tessuto, corna o legno, raramente sopravvive, se non nel ghiaccio o nel permafrost. Una volta scongelato, però, si decompone rapidamente.
Se trovi qualcosa tra i ghiacci svizzeri, fai una foto e inviala subito alle autorità localiCollegamento esterno, che potrebbero mandare un gruppo di archeologi e archeologhe a prenderlo. Annota la posizione del ritrovamento su una mappa o segnane le coordinate. I reperti vanno raccolti soltanto nel caso in cui rischino l’immediata distruzione o non sia più possibile individuarne la posizione esatta.
Maggiori informazioni sull’archeologia dei ghiacciai e le autorità locali qui: https://alparch.ch/Collegamento esterno (anche in italiano)
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Traduzione dall’inglese: Camilla Pieretti
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