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Commissione Bergier: il monopolio involontario sulla storia

Da destra: Jean-François Bergier, presidente, Myrtha Welti, segretaria generale, e Jacques Picard, membro della Commissione Keystone Archive

Giovedì la Commissione indipendente di esperti Svizzera-Seconda guerra mondiale (commissione Bergier) presenta i primi otto volumi del suo rapporto finale. Un'opera destinata a far discutere e a dare nuovi impulsi alla ricerca storica, soprattutto perché basata su un'ampia messe di documenti finora inaccessibili. Con un neo: molti degli atti consultati dai collaboratori della commissione potrebbero sparire di nuovo negli archivi privati.

Il clima politico svizzero, da quando nel 1996 il Consiglio federale istituì la Commissione indipendente di esperti Svizzera-Seconda guerra mondiale (CIE), è mutato e con esso anche le aspettative dell’opinione pubblica verso il gruppo di ricercatori presieduto dal professor Jean-François Bergier. Allora si era in piena polemica sulla questione dei fondi ebraici. Dalla commissione ci si attendevano – impropriamente – risposte in qualche modo definitive sul ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale.

Nel frattempo l’accordo globale tra le banche svizzere e le organizzazioni ebraiche – in cifre 1,25 miliardi di dollari destinati alle vittime del nazifascismo – ha tolto il vento alle vele della polemica e le acque si sono alquanto calmate. Altri temi hanno occupato le pagine dell’attualità. Meglio così, in fondo, per una commissione di storici non necessariamente addestrati alle schermaglie del dibattito politico e mediatico.

L’interesse degli storici

Ciò non toglie che i risultati del lavoro della commissione Bergier suscitino curiosità fra gli storici. Il decreto del Consiglio federale che istituì la CIE spalancava a quest’ultima le porte degli archivi delle aziende private, oltre a quelle degli archivi pubblici. Una breccia in cui i ricercatori della commissione, forti del loro statuto privilegiato, si sono ovviamente gettati a capofitto. Non stupisce perciò che gli altri storici attendano con interesse i risultati delle spedizioni della CIE nell’inedito paradiso documentario.

Intanto potranno cominciare con i primi otto volumi. Altri diciassette dovrebbero seguire in novembre e il rapporto finale vero e proprio, in quattro lingue, nella primavera del 2002. Un’opera di ampie dimensioni, insomma, cresciuta nel corso degli anni ben oltre gli obiettivi iniziali del governo, che probabilmente susciterà qualche polemica a sfondo politico a breve termine, ma che necessiterà di tempi lunghi per essere assimilata dalla storiografia.

Perché una cosa è certa: il lavoro della cinquantina di collaboratori scientifici della CIE offrirà informazioni nuove su temi ancora relativamente poco studiati come – se vogliamo prenderne alcuni di quelli affrontati nei primi otto volumi – l’affare “Interhandel”, i lavoratori forzati nelle aziende svizzere con sede nel Terzo Reich, le modalità degli accordi di clearing tra Svizzera e paesi dell’Asse, i rapporti delle industrie elettriche e chimiche con la Germania nazista.

Presumendo che il lavoro sia stato svolto con la massima serietà e la necessaria attitudine scientifica e ricordando – per chi ancora ingenuamente anelasse ad una ricostruzione storica definitiva – che nessun’opera storiografica può mettere fine alle analisi e alle interpretazioni del passato, dal rapporto della CIE ci si può attendere uno sguardo assai ampio e dettagliato sulla storia politica ed economica della Svizzera nell’epoca dei fascismi.

Bergier come Bonjour ?

Rimane però un neo, che rischia di creare una sorta di monopolio sulla storia da parte della CIE. La decisione del Consiglio federale del 3 luglio scorso, che permette alle aziende di pretendere dalla CIE la restituzione delle fotocopie dei documenti d’archivio, potrebbe sottrarre agli altri storici la possibilità di una verifica delle tesi della commissione. Riproponendo così una situazione molto simile a quella verificatasi dopo la pubblicazione del rapporto Bonjour sulla Seconda guerra mondiale negli anni Settanta.

“Allora come oggi per la ricerca scientifica indipendente è necessario poter verificare i risultati della storiografia ‘semiufficiale’, basata su un accesso privilegiato agli archivi”, nota lo storico Sacha Zala, membro del comitato della Società svizzera di storia.

Zala, che si è a lungo occupato della storia di pubblicazioni ufficiali di atti (i suoi studi sono confluiti nel recente volume “Geschichte unter der Schere politischer Zensur”, München 2001), ricorda che, analogamente a quanto avvenuto per il rapporto Bergier, anche il rapporto Bonjour rappresentò una “rivisitazione forzata del passato”.

Tra gli atti tedeschi finiti nelle mani degli alleati vi erano infatti documenti che provavano la violazione del principio di neutralità da parte della Svizzera. Negli anni Cinquanta il governo elvetico si adoperò per impedirne la consultazione a storici svizzeri, come dimostrato da Zala, ma la loro pubblicazione da parte alleata mise la Svizzera nella condizione di dover reagire.

Nel 1962 il Consiglio federale affidò allo storico Edgar Bonjour, già noto per i suoi studi sulla storia della neutralità, il compito di redigere un rapporto sull’atteggiamento della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Pensato inizialmente come documento interno, il rapporto dovette essere pubblicato, dietro pressione dell’opinione pubblica. Il governo operò comunque una censura sui volumi di documenti annessi, suscitando di nuovo forti reazioni in parlamento e nel paese.

Nonostante la censura, sottolinea Zala, la pubblicazione del rapporto Bonjour innescò tuttavia un processo inarrestabile di rivisitazione del passato recente del paese. Nel 1972 una petizione di storici chiese la revoca dell’embargo sui documenti precedenti il 1945. Sostenuta dall’argomento della necessità di verificare i risultati del lavoro di Bonjour, il postulato sfociò in una liberalizzazione della prassi dell’Archivio federale.

Come ai tempi di Bonjour, anche oggi gli storici chiedono che siano date le condizioni per verificare la validità del rapporto Bergier. In una risoluzione del 7 aprile 2001, la Società svizzera di storia chiedeva che tutti i materiali utilizzati dalla CIE fossero depositati nell’Archivio federale. Il 3 luglio il Consiglio federale ha deciso altrimenti, consentendo alle aziende private di chiedere la restituzione delle oltre 100’000 fotocopie di documenti d’archivio.

Peccato per gli storici. A meno che le aziende siano fulminate sulla via di Damasco…

Andrea Tognina

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