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Due scienziati svizzeri alla ricerca di ghiaccio sulle comete

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Nicolas Thomas, 63 anni, davanti a una delle grandi camere termovuoto dell'istituto di fisica dell'Università di Berna. swissinfo.ch

Grazie a uno strumento innovativo, due astrofisici dell'Università di Berna sperano di gettare più luce sul mistero della formazione del Sistema solare. Secondo loro, la chiave è nel ghiaccio che può trovarsi nello strato polveroso delle comete.

Il laboratorio dell’Università di Berna trema letteralmente quando i ricercatori testano gli apparecchi che un giorno invieranno nello spazio. Su un tavolo di agitazione c’è un vecchio computer destinato alla rottamazione. Viene spinto ben oltre i suoi limiti. Verso la fine dell’esperimento, pezzi di plastica volano per tutta la stanza. Il computer è distrutto.

Nicolas Thomas ha osservato la scena da dietro una finestra in vetro blindato. Questo professore di fisica sperimentale è un esperto delle forze esercitate su persone e apparecchiature durante il lancio di un razzo. Nel 2016, era a Baikonur, in Russia, per assistere al lancio nello spazio di un razzo con a bordo la stereocamera CaSSIS, progetto al quale ha lavorato molto.

“Mi trovavo a quattro o cinque chilometri dal luogo del lancio, ma che esperienza è stata! Tutto il tuo corpo trema al momento del decollo e pensi: ‘Povero apparecchio che deve sopravvivere a questo!'”.

Ma le difficoltà non finiscono lì. Dopo un decollo movimentato, lo strumento deve ancora resistere allo shock della separazione dal vascello spaziale e dal razzo per poi essere esposto a forti radiazioni nello spazio.

Un nuovo strumento

Insieme, Nicolas Thomas e Linus Stöckly, dottorando in astrofisica, hanno sviluppato uno strumento inedito e vogliono utilizzarlo su una cometa.

Con esso, i due ricercatori sperano di scoprire del ghiaccio sotto la superficie di uno di questi corpi celesti e di ottenere informazioni sulla formazione del Sistema solare, quando ghiaccio e polvere si sono incontrati.

“Studiando la superficie di una cometa, o perlomeno qualche centimetro al di sotto di essa, abbiamo la possibilità di circoscrivere un po’ il processo di formazione del Sistema solare”, spiega Thomas.

Le comete sono probabilmente delle vestigia della formazione del Sistema solare e possono aiutare a spiegare il periodo relativamente recente della nascita del Sole. L’analisi del ghiaccio, può fornire, tra l’altro, indizi sul modo in cui polvere e ghiaccio si sono combinati nel primo sistema solare.

Nel novembre del 2014, la missione Rosetta dell’Agenzia spaziale europea (ESA) – alla quale ha partecipato anche l’Università di Berna – ha dimostrato che è possibile per una sonda inviare un modulo d’atterraggio su una cometa. Il piccolo apparecchio si era allora posato in modo non proprio morbido sulla cometa 67PChuryumov-Gerasimenko.

Come funziona lo strumento

Nel suo laboratorio, Stöckli mostra un apparecchio che assomiglia a una lavatrice, ma permette di effettuare misurazioni. Il tutto grazie a uno spettrometro acquistato in commercio.

È così che tenta – nel vuoto – di decifrare vari miscugli di polveri e ghiaccio, in modo da capire esattamente in che modo sono legati.

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Linus Stöckli con la placchetta su cui vengono posati i campioni da testare. swissinfo.ch

Per Stöckli tutto sta nel riuscire, tramite la misurazione, a distinguere la polvere dal ghiaccio. “Se ci riusciremo, allora svilupperemo un nuovo strumento che potremo inviare nello spazio”, spiega il ricercatore.

Gli spettrometri attualmente in commercio non sono adatti a una tale missione. I due astrofisici dovranno costruire uno strumento il più piccolo e robusto possibile, poiché dovrà essere installato su un modulo d’atterraggio ed essere capace di resistere alle condizioni dello spazio.

L’apparecchio che i ricercatori bernesi utilizzano è uno spettrometro terahertz, una tecnologia oggi usata per la sicurezza negli aeroporti e per gli esami della pelle,

Tuttavia, secondo Thomas, non è ancora stato utilizzato per strumenti spaziali. L’idea è nata da un collega del professore, specializzato in fisica dei laser.

La spettroscopia terahertz comprende una nuova gamma di lunghezze d’onda accessibile solo ora grazie alle nuove tecnologie, spiega il ricercatore.

Lui e il collega prevedono di usare un’antenna per emettere dei fotoni. Questi saranno riflessi – il metodo più fattibile – oppure attraverseranno il campione da analizzare. I dati che ritorneranno al ricettore dovrebbero fornire informazioni sulla composizione dei primi centimetri sotto la superficie di una cometa.

Questo strato potrebbe contenere preziose informazioni sulle prime fasi del nostro Sistema solare, spiega Carster Güttler, planetologo dell’Università di Münster, in Germania, che a sua volta lavora nell’ambito delle comete.

Approccio promettente

L’approccio dell’Università di Berna è “molto promettente” afferma il ricercatore dell’ateneo tedesco che è a conoscenza del progetto, anche se non vi partecipa. Güttler trova l’idea “particolarmente emozionante, perché non conosco nessuna strumentazione di questo timo nel settore della ricerca sulle comete”.

Il radar e l’infrarosso, tra cui si iscrivono le lunghezze d’onda del terahertz, sono già stati utilizzati sulle comete. Il radar permette una migliore penetrazione della superficie ma una debole risoluzione delle onde riflesse. Con l’infrarosso, che ha una buona risoluzione, non si penetra abbastanza a fondo nel suolo.

Finanziamento della Confederazione e dell’ESA

Thomas sottolinea che la spettroscopia terahertz è una tecnologia totalmente nuova per lo spazio. “Penso che sia una delle ragioni per cui le agenzie spaziali sono interessate”, afferma.

Il ricercatore ritiene che faccia da sempre parte del suo lavoro pensare a nuovi strumenti e cercare di effettuare misurazioni che permettano di scoprire qualcosa di nuovo sulla superficie dei pianeti.

Tuttavia, è cruciale che i test in laboratorio diano risultati chiari, il che può prendere molti anni. “Se si vuole installare un simile apparecchio su una sonda spaziale, bisogna aver pensato a tutti gli scenari peggiori”, spiega Stöckli. Cita l’esempio di componenti difettosi che disturbano le misurazioni modificando i risultati. Una volta che lo strumento è nello spazio, non è più possibile apportare correzioni.

Il progetto dei due ricercatori ha ottenuto un finanziamento di 1,3 milioni di franchi per tre anni dalla Segretaria di Stato svizzera per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI), mentre l’ESA ha finanziato la fase iniziale con 90’000 euro.

Una lunga esperienza

Nicolas Thomas ha già partecipato allo sviluppo di diversi apparecchi attualmente in servizio nello spazio. È dunque motivo d’orgoglio per lui mostrare sul suo smartphone i dati raccolti su Marte da CaSSIS – le informazioni vengono aggiornate ogni 15 minuti dal Centro europeo per le operazioni spaziali a Darmstedt.

Il professore riconosce di essere “dipendente” da questo tipo di dati. “Mi provoca un’intensa euforia vedere i primi dati provenienti da uno strumento su cui ho lavorato”. Il nuovo strumento dei due ricercatori potrebbe eventualmente essere utilizzato per una missione all’inizio degli anni Quaranta di questo secolo, spiega il professore, che in quel momento sarà già in pensione.

“È un aspetto difficile; il fatto di lavorare su qualcosa che forse non vedremo mai”, ammette. Ma la lentezza del processo scientifico fa parte del lavoro. E la possibilità di contribuire a modellare il futuro è una costante fonte di motivazione per il ricercatore.

Il nuovo strumento potrebbe rafforzare la posizione della Svizzera in seno alla comunità spaziale internazionale.  Sarebbe bene che il Paese desse prova di leadership in questo settore. Ciò aumenterebbe anche la visibilità nei confronti della NASA, per esempio, che è molto interessata a collaborare con la Confederazione. “Potremmo piantare una piccola bandiera svizzera e dire: ecco il nostro contributo!”.

A cura di Sabrina Weiss

Traduzione: Zeno Zoccatelli. Revisione: Sara Ibrahim

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