Due anni dopo l'inizio della primavera araba, il regime siriano non ha ancora abdicato e conduce una feroce repressione degli oppositori. Il fotografo Moises Saman ha visitato il paese in preda al caos, così come i campi profughi in Giordania e Turchia.
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Il 17 dicembre 2010 il giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi si dà fuoco nel centro di Sidi Bouzid, in Tunisia, per protestare contro un’ingiustizia di una poliziotta, di cui sarebbe stato vittima. Il suo atto disperato innesca la rivoluzione dei gelsomini.
I venti di rivolta investono il mondo arabo. Dopo quella di Ben Ali in Tunisia, l’effetto domino provoca la caduta di Mubarak in Egitto, di Gheddafi in Libia, di Saleh in Yemen. La Siria non è risparmiata dalle proteste, ma il regime di Bashar al-Assad resiste dal 15 marzo 2011, attuando la strategia di terra bruciata. L’esercito regolare e le milizie pro-Assad, Shabiha, operano una sanguinosa repressione dei manifestanti, dell’opposizione e dei gruppi armati.
Alla fine di novembre 2012, il numero delle vittime di violenza mortale supera i 40mila morti, la maggior parte civili, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani (con sede a Londra). Intanto i rifugiati continuano ad affluire a centinaia di migliaia nei paesi vicini: Turchia, Libano, Iraq, Giordania. L’inverno è ormai alle soglie e l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati si prepara ad aiutare mezzo milione di persone entro la fine del 2012.
Il fotografo peruviano Moises Saman si è recato in Siria e nei campi profughi in Giordania e Turchia, dove le condizioni di vita sono estremamente dure. Il suo obiettivo ha immortalato scene apocalittiche, in cui i fori di proiettili testimoniano un terrore implacabile. Luoghi da incubo in cui si mescolano polvere e disperazione.
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