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La rivolta delle tuniche rosse

Monaci buddisti in processione a Yangon, dove martedì si sono riunite oltre 100mila persone Keystone

A vent'anni dalla protesta popolare repressa nel sangue dai militari, il Myanmar è di nuovo in fermento. Guidate dai monaci buddisti, migliaia di persone chiedono una vita più dignitosa.

Nel corso di un viaggio in settembre, in concomitanza con le prime contestazioni contro il rialzo dei prezzi, un giornalista di swissinfo ha raccolto testimonianze ed impressioni di un popolo logorato da 45 anni di dittatura.

Il taxi si accosta al bordo della strada che porta a Mandalay, l’antica capitale a nord di Yangon, incurante dei roboanti mezzi pesanti che senza vergogna sfrecciano a luci spente nel pieno della notte. Una notte resa ancor più buia dall’assenza di illuminazione. In Myanmar la corrente elettrica porta bene il suo nome: alternata. Ieri c’era, oggi no, domani…forse.

«Solo due minuti, devo fare benzina», dice l’autista prima di sparire nell’oscurità con un bidone di plastica. Inutile tentare di indovinare la sagoma di una stazione di servizio: chi non è membro dell’esercito o del governo si deve arrangiare al mercato nero.

«Prima il gallone costava 1’500 kyat [circa 1,5 franchi]. Ora vi vogliono dai 3’500 ai 5’000 kyat, a dipendenza del giorno e del luogo», spiega il tassista, ritornato incolume dall’altro lato della carreggiata.

Il lusso di lavorare

Ad aver reagito all’annuncio del brusco aumento del prezzo del carburante (raddoppiata la benzina, quintuplicato il gas naturale) sono inizialmente stati gli abitanti di alcuni villaggi. Senza preavviso il biglietto del bus che li trasportava in fabbrica e nei campi è passato da 400 a 1’100 kyat. Per lo stesso tragitto pieno di buchi, per lo stesso veicolo stipato e scassato, per i soliti 2’000 kyat al giorno. Andare a lavorare è improvvisamente diventato un lusso che non potevano permettersi.

«La gente si è riunita in strada per protestare, ma poi è intervenuta la polizia», racconta all’ombra di un tamarindo un guidatore di trishaw, le tipiche biciclette a tre ruote, mimando un eloquente colpo di bastone.

Sessant’anni suonati, un po’ di pancia di troppo – «la birra, la birra», confessa – e due gambe irrobustite da 40 anni di pedalate, U Than è visibilmente desideroso di approfittare di uno dei pochi viaggiatori nella stagione delle piogge per praticare il suo inglese. E scaricare le sue frustrazioni.

«Al governo non interessa la salute del suo popolo. Ma se proviamo ad aprire bocca…». S’interrompe e getta uno sguardo ai camerieri del ristorante vicino. Gli informatori del governo possono essere ovunque. Parlare di politica è rischioso e U Than ha parecchie bocche da sfamare che lo aspettano a casa. Continuiamo a discutere, ma deviamo sulle pagode e i templi di Mandalay.

20 barattoli di riso in meno

La decisione della giunta militare non poteva giungere in un momento peggiore. L’inflazione è dilagante (40-60% all’anno), il 90% della popolazione vive con meno di 30 franchi al mese e la sicurezza alimentare in diverse regioni rurali è seriamente compromessa. Senza che il governo abbia mosso un dito, segnala un rapporto delle Nazioni Unite.

«Prima si potevano comperare 35-40 barattoli di riso», ricorda U Than, più prodigo di parole una volta rimessosi in sella. «Adesso per lo stesso prezzo se ne acquistano 20». Rimanere senza riso. Triste destino per un paese che ancora il secolo scorso figurava tra i maggiori produttori mondiali.

Il treno che lascia Mandalay, tra scossoni e cigolii metallici, rivela quello che le televisioni non mostrano. In primo piano la povertà sfacciata di bambini che vivono di spazzatura; sullo sfondo i tetti delle case che spuntano dall’acqua. Isole di bambù scampate alle inondazioni, devastanti anche qui alla pari di India e Bangladesh.

Nirvana negato ai militari

«Vieni da Pakkoku?», mi chiede con ansia la gerente di una guesthouse. «Ho sentito che alcuni monaci hanno manifestato pubblicamente. La polizia è intervenuta con i bastoni. Pare che ci sia un morto».

La crisi dei prezzi non ha tardato a manifestarsi nell’essenza della cultura birmana: la religione. Anche per i monaci, spostarsi con i mezzi pubblici per recarsi da una pagoda all’altra è diventato più dispendioso.

«E se la gente ha pochi soldi – osserva una turista spagnola – le donazioni sugli altari si saranno fatte meno generose». Di che turbare la pace interiore del mezzo milione di persone che in Myanmar ha fatto della meditazione la propria ragione di vita. Contando esclusivamente sulla generosità dei fedeli.

I monaci hanno lasciato i templi, impugnando proprio quella religione che la scelleratezza dei governanti sta compromettendo: nelle loro tradizionali tuniche rosso scuro hanno sfilato compostamente per le vie cittadine, recitando sermoni buddisti anzichè slogan politici.

«La ciotola di riso che solitamente portano durante la questua del mattino è però tenuta al rovescio», fa notare un conducente di un carretto a cavallo. Per i membri della giunta, che non possono più acquisire meriti tramite le elemosine, il cammino che porta al nirvana è oramai sbarrato.

Non violenza

Yangon. Piove a dirotto e molti quartieri sono allagati. A casa di un vecchio amico i secchi sul pavimento non riescono a contenere l’acqua che filtra dal tetto.

«Nemmeno il diluvio ferma le proteste. Ora ai monaci si è unita anche la gente», constata. Gli chiedo se si ricorda della risposta che mi diede qualche anno fa, quando alla prima visita in Myanmar non ho potuto trattenermi dal chiedere: «Ma perché non reagite?».

Sorride e scuote la testa. Si ricorda benissimo: «Perché Buddha ci insegna la non violenza».
«Ti dissi di più», aggiunge: «Verrà il giorno in cui la situazione cambierà».

swissinfo, Luigi Jorio, di ritorno dal Myanmar

Creata nel 1992 da un gruppo di persone interessate alla Birmania, l’associazione con sede a Ginevra si è fissata l’obiettivo di fornire aiuto e sostegno alla popolazione e di sostenere i movimenti democratici.

Nel 1993 è stata responsabile dell’organizzazione della missione dei Premi Nobel per la pace presso la sede ginevrina dell’ONU.

L’associazione condivide il concetto di boicotto turistico del Myanmar formulato dalla leader pro democratica Aung San Suu Kyi, che ha invitato gli stranieri a non visitare il paese fintanto che la giunta militare rifiuterà di dialogare con l’opposizione.

Ex colonia britannica, la Birmania (ufficialmente Unione del Myanmar dal 1989) ottiene l’indipendenza nel 1948. Un colpo di stato nel 1962 mette fine alla giovane democrazia.

La soppressione dei partiti politici e la repressione delle libertà isolano il paese dal resto del mondo.

Nell’agosto del 1988 la giunta militare soffoca con la forza una serie di proteste studentesche. I morti e i feriti si contano a migliaia.

In occasione delle elezioni libere del 1990, le prime in 30 anni, la Lega Nazionale per la Democrazia NLD (guidata dal premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi) ottiene oltre l’80% dei voti. La giunta si rifiuta di cedere il potere, arrestando Aung San Suu Kyi (tutt’ora confinata al suo domicilio) ed altri leader dell’NLD.

Se prima dell’indipendenza il Myanmar era una delle colonie britanniche più ricche, oggi figura tra i paesi più poveri al mondo ed è oggetto di un embargo internazionale.

La situazione si è ulteriormente esacerbata dopo l’annuncio, lo scorso 15 agosto, dell’aumento del prezzo del carburante. Con il passare dei giorni, alle manifestazioni pacifiche dei monaci buddisti si sono aggiunte decine di migliaia di persone in varie città del paese.

Martedì, l’Unione europea ha espresso la sua solidarietà al popolo birmano invitando le autorità a rispettare il diritto di manifestare pacificamente. Più fermi gli USA, che hanno annunciato nuove sanzioni economiche.

Contattato da swissinfo, il Dipartimento federale degli affari esteri comunica che “per il momento la Svizzera osserva con la più grande attenzione gli sviluppi della situazione”.

“Invitiamo con fermezza le autorità del Myanmar a seguire la via del dialogo e a cooperare con il CICR e l’ONU in materia di diritti umani”, aggiunge.

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