Trent’anni fa la diossina sulla Brianza
Il 10 luglio del 1976 dagli stabilimenti dell'Icmesa, filiale della società svizzera Givaudan, si sprigionò la nube tossica che devastò Seveso.
Circa 200 persone, soprattutto bambini, furono contaminate dalla diossina. Molte di loro portano ancora oggi sul volto i segni della tragedia.
Per gli abitanti di Seveso, Cesano Maderno, Desio e Meda – comuni della Brianza a una ventina di chilometri da Milano – quel sabato di trent’anni si annunciava sotto i migliori auspici: soleggiato e caldo.
Poi alle 12.37, l’ordinaria giornata estiva si trasforma in tragedia. Nel reparto “B” degli stabilimenti dell’Icmesa, di proprietà della società ginevrina Givaudan, che fino al 2000 faceva capo al gruppo svizzero Hoffman La Roche, accade l’irreparabile.
La temperatura di un reattore adibito alla distillazione di triclorofenolo, un componente di erbicidi e pesticidi, sale sopra il limite di sicurezza di 175 gradi centigradi. Una valvola si rompe, rilasciando all’esterno, per circa mezz’ora, una nuvola giallastra che si diffonde fino a 6 chilometri di distanza dalla fabbrica.
La “fabbrica dei profumi”
Il giorno precedente, il reattore non era stato svuotato completamente. Durante la notte prende il via una reazione termica spontanea. L’aumento della temperatura altera la composizione del contenuto, sviluppando una notevole quantità di TCDD, la tetraclorodibenzo-p-diossina.
Ancora oggi non si sa esattamente quanta diossina si disperde nell’ambiente: le stime vanno dai 2 ai 18 chili.
Gli abitanti della zona, abituati agli odoracci di quella che avevano soprannominato la “fabbrica dei profumi”, non si allarmano più di quel tanto.
L’azienda minimizza
I responsabili dell’azienda, dal canto loro, minimizzano: solo l’indomani informano le autorità della fuga ma non menzionano la diossina. Il 14 luglio, i laboratori svizzeri della Givaudan hanno le prove della presenza di TCDD tra le sostanze disperse, ma comunicano la scoperta alle autorità italiane solamente cinque giorni dopo.
Intanto, gli effetti del veleno cominciano a manifestarsi. All’indomani dell’incidente, l’ispettore sanitario riscontra danni alla vegetazione. Vengono ritrovati morti numerosi animali.
Solo dopo alcuni giorni agli occhi del mondo comincia ad apparire la vera dimensione della catastrofe.
Evacuazione
Tra la popolazione, i bruciori si trasformano in arrossamenti e gli arrossamenti in piaghe. I primi casi di intossicazione sono segnalati il 15 luglio. I più colpiti sono i bambini che giocavano all’aperto mentre la nube ricadeva al suolo. La diossina causa disfunzioni epatiche e gravi eruzioni cutanee con lesioni simili all’acne (cloracne).
Tra colpevoli ritardi, il 26 luglio inizia l’evacuazione dalla zona A, la più colpita dalla nube tossica. Settecentotrentasei persone devono lasciare le loro abitazioni. Molte case di questa zona di 15 ettari sono rase al suolo.
La zona B, dove la contaminazione è inferiore, e la zona R (di rispetto) vengono sottoposte per dieci anni ad alcune limitazioni, come ad esempio il divieto di coltivazione e di allevamento di animali.
Effetti sul lungo termine
Il bilancio è pesante: circa 200 persone, essenzialmente dei bimbi, sono colpiti da cloracne e molti di loro portano ancora oggi sul viso le stigmate della tragedia. Temendo di dare alla luce bimbi affetti da malformazioni, 32 donne optano per un aborto terapeutico. Non meno di 80’000 animali muoiono o devono essere abbattuti.
Gli effetti a lungo termine della catastrofe sono tuttora oggetto di studio. Gli epidemologi hanno constatato, ad esempio, un aumento di leucemie e linfomi tra gli abitanti della zona A.
Cinque anni dopo, gli impianti Icmesa vengono smantellati. Lo strato superficiale del terreno viene rimosso e il materiale contaminato (macerie delle case, oggetti personali, animali morti…) è depositato in due grosse vasche ermetiche di cemento. Nel 1984, sul terreno della tragedia nasce un parco urbano, il Bosco delle Querce. Sulle due vasche vengono edificate due colline artificiali.
Il passato è sepolto, ma non dimenticato: il parco ha infatti quale principale vocazione di coltivare la memoria attraverso un percorso educativo.
Una storia tinta di giallo
La storia della tragedia di Seveso non finisce però qui: quando il reattore della fabbrica viene smantellato, le scorie vengono sistemate in 41 fusti e spedite alla fabbrica della Ciba Geigy a Basilea per essere incenerite.
Al momento di attraversare la frontiera franco-italiana a Ventimiglia i fusti spariscono. Vengono ritrovati solo un anno più tardi, nel maggio del 1983, in un macello in disuso a Anguilcourt-le-Sart, nel nord della Francia. Nel novembre del 1985 le scorie saranno finalmente incenerite a Basilea.
Un giallo reso ancor più intricato dalle ipotesi secondo le quali negli stabilimenti della Icmesa vi fosse una produzione parallela, segreta, di materiale chimico ad uso militare.
Sul fronte giudiziario, la Givaudan e la Roche – difese da uno stuolo di avvocati – non vengono inquietate oltre misura. Complessivamente versano circa 300 milioni di franchi, in particolare ai comuni, alla Regione Lombardia e allo Stato italiano.
Due dirigenti della Givaudan sono condannati a pene sospese condizionalmente. A detta di molti, però, i due sono soprattutto delle pedine, sacrificate per non inquietare i vertici della multinazionale.
Dramma nel dramma, infine, nel 1980 Paolo Paoletti, dirigente dell’Icmesa, viene ucciso dai terroristi di Prima Linea, “punito” per i fatti di Seveso.
swissinfo, Daniele Mariani
L’incidente di Seveso ha fortemente sensibilizzato l’opinione pubblica europea ai rischi dell’industria chimica.
L’Unione Europea ha reagito emanando nel 1982 la “direttiva Seveso”, che prescrive una sorveglianza maggiore delle istallazioni industriali dove vengono utilizzate sostanze pericolose.
La Svizzera ha a sua volta inasprito le norme, in particolare dopo la catastrofe del 1984 di Bhopal, in India, e dopo l’incendio che nel 1986 devastò un magazzino dell’impresa Sandoz a Schweizerhalle, nel canton Basilea. Migliaia di litri di acqua contaminata utilizzata per spegnere i prodotti agrochimici in fiamme si riversarono nel Reno, causando un inquinamento fino alla foce nel mare del Nord.
La nube tossica di Seveso ha inquinato una superficie di circa 17 chilometri quadrati.
Le operazioni di decontaminazione sono durate dieci anni.
Il numero delle malformazioni congenitali registrate nella regione è passato da quattro all’anno prima della catastrofe a 59 nel 1978.
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