«Mi hanno rubato la giovinezza»
Dopo essere stati dimenticati per anni, i bambini strappati alle loro famiglie tra gli anni '20 e gli anni '60 hanno finalmente diritto alla parola. Una mostra inaugurata una settimana fa a Berna ritorna su questo capitolo poco glorioso della storia svizzera.
«In Svizzera si pensa spesso che tutto brilli, ma non è così, ci sono anche cose orribili». Un brivido freddo corre lungo la schiena ascoltando le testimonianze dei cosiddetti ‘Verdingkinder’ (letteralmente “bambini appaltati”).
Fino agli anni ’60, furono decine di migliaia i bambini strappati ai loro genitori e collocati in istituti o in famiglie, per lo più di agricoltori. Costretti a sobbarcarsi dei duri lavori, questi ragazzini erano a volte anche vittime di ogni tipo di angheria.
Per anni, la loro sorte è stata avvolta da un pesante velo di nebbia. Solo a partire dagli anni ’90 alcuni di questi ormai ex bambini hanno deciso di uscire dall’anonimato per denunciare le scelleratezze di una politica sociale durata decenni. «È stato duro, molto duro raccontare», afferma Michel in una video-intervista.
«È una questione generazionale», spiega dal canto suo Jacqueline Häusler, curatrice dell’esposizione inaugurata mercoledì alla Käfigturm di Berna e membro dell’associazione «Infanzie rubate». «Molte di queste persone hanno nascosto la loro infanzia per anni e anni, temendo che si ritorcesse contro di loro. Spesso hanno iniziato a parlare solo una volta uscite dal mondo del lavoro o quando i loro figli erano grandi».
Manodopera a basso costo
L’esposizione si basa sulle interviste, realizzate nell’ambito di due progetti di ricerca, di circa 300 persone date in affidamento dall’inizio degli anni ’20 fino agli anni ’60. «Si tratta naturalmente di ricordi soggettivi. Ci sono stati anche dei ‘Verdingkinder’ che hanno avuto un’infanzia felice», precisa Jacqueline Häusler.
Di momenti di felicità i vari Johann, Simon, Georges, Jean-Louis o Barbara ne hanno dal canto loro avuto pochi. «Mi è mancato semplicemente quello che gli altri chiamano amore», afferma uno di loro.
Le ragioni di un affidamento erano diverse: povertà, decesso dei genitori, divorzio, illegittimità, ‘abbandono morale’, ossia quando la vita dei genitori non corrispondeva alle norme borghesi…
«Quando mio padre si è ammalato, mia madre ha chiesto aiuto all’assistenza sociale ma se l’è visto rifiutare. Hanno preferito darci in affidamento piuttosto che aiutare mia madre ad allevarci. Eravamo nove bambini. Siamo stati tutti affidati», si legge su un cartellone. Per le autorità, era infatti molto meno oneroso collocare i bambini in altre famiglie – che li impiegavano come manodopera a basso costo – che fornire assistenza ai genitori.
Dei paria
Le testimonianze sulla vita quotidiana sono spesso raccapriccianti: «Mangiavo in una rimessa senza finestre vicino alla stalla. Non ho mai potuto mangiare seduto a tavola in cucina», ricorda ad esempio Johann.
Su una parete sono esposti oggetti che hanno avuto un significato particolare per questi bambini, come una bambola, regalata dal padrino in punto di morte alla sua figlioccia e subito sequestrata da una delle persone alle quali era stata affidata.
L’esposizione è strutturata in sette spazi tematici: ricordi del primo giorno d’affidamento, stazioni audio che permettono di ascoltare le testimonianze dei «Verdingkinder», strategie per superare il trauma una volta adulti, messaggi video, situazione e problematiche attuali…
Una piccola aula ricorda che a scuola questi bambini erano trattati come dei paria. «Quello che mi disgusta di più – rammenta Simon, collocato in un istituto assieme ai suoi due fratelli – è che le famiglie considerate ‘normali’ non ci hanno mai invitato una sola volta ai compleanni».
Nessuna scusa ufficiale
Forte è anche il risentimento contro le autorità: «Temo come la peste tutto quello che è servizio sociale, che è ufficiale, dello Stato», scrive André.
A volte, i tutori nominati dallo Stato, che in teoria dovevano amministrare i beni di questi bambini, erano veri e propri mascalzoni. Per i suoi 20 anni, Françoise ricorda di aver ricevuto dal suo tutore un regalo di 200 franchi. La donna non ha mai visto l’ombra dei 160’000 franchi ricavati dalla vendita della casa e del terreno del padre.
«Lo Stato non ha mai pronunciato una parola di scusa, niente, niente», esclama Michel. «Nel 2003 il parlamento ha votato contro un credito per lanciare una ricerca storica approfondita su questo tema», spiega Walter Zwahlen, del netzwerk verdingt, un’associazione che riunisce gli ex ‘Verdingkinder’. «Finora solo la Chiesa cattolica lucernese ha presentato scuse ufficiali».
Imparare dagli errori del passato
Una volta adulti, i ‘Verdingkinder’ hanno tentato di superare il trauma con diverse strategie.
Molti hanno cercato di avere una vita famigliare e professionale normale, rimuovendo i ricordi dell’infanzia. Altri hanno trovato una valvola di sfogo nelle attività creative. Per alcuni, finiti in carcere o rinchiusi in un ospedale psichiatrico, non vi è invece stata via d’uscita.
«Con questa esposizione non vogliamo solo rievocare il passato, ma far sì che dagli errori del passato si possano anche trarre insegnamenti in materia di educazione extrafamigliare», sottolinea Jacqueline Häusler.
E per evitare, forse, che tra qualche anno un altro bambino debba dire, come Michel, «mi è stata rubata la giovinezza».
swissinfo, Daniele Mariani
Tracce della “tradizione” di sottrarre bambini poveri e figli illegittimi alla custodia dei genitori per affidarli a terzi si ritrovano sin dal Medioevo.
I bambini spesso venivano “appaltati”, soprattutto a famiglie contadine. I comuni pagavano una retta ai contadini, per il vitto e l’alloggio dei ragazzi, che di regola dovevano svolgere lavori pesanti.
Fino al XIX secolo, in molti luoghi vi erano dei veri e propri mercati in cui questi bambini venivano messi all’asta e assegnati al miglior offerente. Nel canton Lucerna, ad esempio, queste aste furono vietate nel 1856.
Oltre all’aspetto economico (le autorità spendevano meno collocandoli in una famiglia che in un istituto), l’idea era anche che una famiglia “intatta” potesse fornire al bambino un’educazione migliore.
La prassi di affidare i bambini a famiglie contadine o di collocarli in istituti dove dovevano lavorare cessò solo negli anni ’60. “Molte regioni rurali – spiega Maja Baumgartner, dell’associazione “Infanzie rubate” – si modernizzarono e non vi fu più bisogno di questa manodopera a basso costo. Inoltre il controllo da parte delle autorità aumentò e la morale pubblica cambiò sensibilmente”.
Non esistono statistiche sul fenomeno dei ‘Verdingkinder’. Una stima valuta ad oltre 100’00 i bambini dati in affidamento tra il 1920 e il 1960.
La mostra “Infanzie rubate – parlano i Verdingkinder” organizzata alla Käfigturm di Berna è aperta dal 26 marzo al 27 giugno.
Dopo Berna, l’esposizione farà tappa a Losanna, Basilea, Baden, Frauenfeld, Lucerna, Martigny e Friburgo. Trattative sono in corso per portarla anche a sud delle Alpi.
Durante ogni tappa, sarà sviluppato anche un tema locale. In Ticino, ad esempio, dovrebbe essere presentata la tematica dei bambini spazzacamino.
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