Le calciatrici afgane in esilio lottano per i loro diritti
Due calciatrici, che facevano parte della rosa della squadra nazionale, sono fuggite dall’Afghanistan e ora vivono in Svizzera. A colloquio con SWI swissinfo.ch raccontano delle loro ambizioni sportive e della difficile quotidianità di chi non è riuscito a scappare dal regime dei talebani.
In una fredda e ventosa sera di marzo, a Berna, una dozzina di uomini lasciano il campo da calcio e cedono il rettangolo da gioco a cinque giovani donne in tuta da ginnastica. Le prossime due ore rincorreranno un pallone, calciandolo in porta, eseguendo esercizi di destrezza e dribbling, interrompendo l’allenamento solo per dissetarsi o per ridere per qualche goffo intervento difensivo.
Sahar corre per circa 40 minuti visto che è reduce da un infortunio a un piede subìto la settimana prima. “Prendo degli antidolorifici”, dice sorridendo. “Per me, il calcio significa pace e movimento. Amo fare dello sport”.
“Volevo fare qualcosa per il mio Paese, ma nessuno in Afghanistan era disposto a rendere reale il mio sogno.”
Armisa, calciatrice afgana
Ogni venerdì sera fa il viaggio di due ore e mezzo in treno da San Gallo, la sua nuova casa, con Armisia con cui ha giocato nella squadra nazionale afgana. Insieme propongono allenamenti gratuiti per donne di tutte le nazionalità con la speranza di formare una squadra.
Anche se non hanno ancora un numero sufficiente di giocatrici, non vogliono perdere l’occasione di infilarsi le scarpe coi tacchetti. Le due donne, che per paura delle possibili ritorsioni nei confronti dei parenti in Afghanistan non vogliono che il loro vero nome venga reso noto, si sono incontrate per la prima volta una decina di anni fa a Kabul.
Quando erano adolescenti giocavano con le squadre delle rispettive scuole. Uno scout le ha scoperte e ha chiesto loro di entrare nella rosa della nazionale femminile, squadra che stava muovendo i primi passi.
Il sogno di vestire i colori dell’Afghanistan non è però durato a lungo. Sei anni fa, quando i talebani hanno ricominciato a dettare legge, Sahar e la sua famiglia sono fuggiti. La sua compagna di squadra l’ha seguita alcuni anni dopo.
“Volevo fare qualcosa per il mio Paese, ma nessuno in Afghanistan era disposto a rendere reale il mio sogno”, dice Armisa. “E così me ne sono andata per essere libera di giocare a calcio”. Non ancora diciottenne ha attraversato l’Iran e la Turchia e ha trascorso un anno in Grecia prima di raggiungere la Svizzera.
Il ritorno dei talebani a Kabul ha accresciuto il desiderio di giocare a calcio delle due esuli afghane poiché la presa del potere è coincisa con un netto peggioramento in materia di diritti per le donne che, tra l’altro, non possono più praticare uno sport, attività considerata contraria ai valori islamici. Le atlete che non sono riuscite a fuggire temono ora le punizioni dei talebani.
Poco dopo l’entrata trionfale dei talebani nella capitale afghana, l’ex capitano della squadra nazionale di calcio Khalida Popal, fuggita nel 2011, ha lanciato un appelloCollegamento esterno a tutte le giocatrici, invitandole ad eliminare qualsiasi prova del loro passato di calciatrici.
Battersi per giocare
Il ritorno dei talebani ha arrestato il lento e difficile processo, durato due decenni, volto a migliorare la situazione in materia di diritti umani per le donne. Nonostante avessero finalmente il permesso di praticare uno sport a livello professionistico, le atlete erano confrontate con abusi fisici e minacce di morte in una società non ancora pronta ad approvare la loro passione.
Alcune giocatrici avevano troppa paura di dire alle loro famiglie che giocavano per la squadra nazionale, racconta Sahar, che per un anno e mezzo ha vestito i colori afghani. Armisa non è mai stata sostenuta dalla famiglia, eccezion fatta per la madre.
“Mio fratello maggiore ha fatto di tutto per convincermi a smettere”, ricorda. “All’inizio è stato molto difficile per me giocare a calcio”.
>> Ascolta i racconti di Armisa e Sahar di quando erano calciatrici in Afghanistan (sottotitoli in inglese):
Oltre alla disapprovazione della famiglia, le giocatrici erano confrontate con abusi di vario tipo lungo il percorso tra il campo da calcio e il domicilio.
“Quando ci vedeva, la gente ci copriva di terribili epiteti”, racconta Armisa, aggiungendo che per le donne era difficile uscire di casa da sole, soprattutto se indossavano una tuta sportiva. Alcune atlete hanno subìto molestie sessuali per strada.
Ma proprio il comportamento della gente le ha rese più forti e determinate. “Abbiamo lottato ancora più duramente e gli sguardi di disapprovazione ci hanno motivate a continuare a giocare”, afferma Armisa con un filo di voce.
Recarsi all’estero per disputare delle partite e incontrare altre giovani donne le ha ulteriormente motivate. Nei tre anni in cui era nel giro della squadra nazionale, Armisa ha partecipato a tornei in Norvegia, Qatar e Sri Lanka. Fiera ci mostra una foto in cui la si vede con la squadra norvegese e la giocatrice afgana Popal, che vive ora in Danimarca.
“In questi vent’anni l’Afghanistan ha fatto grandi progressi. Ora viene distrutto tutto e bisogna ricominciare da capo.”
Sahar, calciatrice afgana
Sahar e Armisia sono molto preoccupate per le giocatrici e le loro famiglie che sono rimaste in Afghanistan. “La notizia del ritorno al potere dei talebani è stato uno shock enorme per me”, dice Armisa. “Ho pianto per un mese intero”.
Sua madre e due fratelli sono riusciti a rifugiarsi in Pakistan, ma tre altri membri della sua famiglia continuano a vivere a Kabul, tra cui anche il padre che, a causa delle sue passate attività con i servizi segreti afghani, teme ritorsioni da parte dei talebani. La situazione dei suoi familiari l’ha stressata talmente tanto che all’inizio dell’anno ha dovuto abbandonare l’apprendistato come operatrice per la pulizia.
Dal canto suo, Sahar cerca di dare un senso a ciò che sta avvenendo in patria. “In questi vent’anni [tra il 2001 e il 2021, ndr], l’Afghanistan ha fatto grandi progressi. Ora viene distrutto tutto e bisogna ricominciare da capo”, dice Sahar. “È un momento molto doloroso per me”.
Alla ricerca di una casa
Temendo il peggio, Popal, le associazioni sportive e gli attivisti si sono uniti per coordinare la fuga di dozzine di giocatrici e dei loro famigliari. Molte persone si sono trasferiti in Australia, Portogallo o nel Regno Unito.
La Federazione internazionale delle associazioni calcistiche FIFA ha organizzato il loro trasferimento con l’aiuto del Governo del Qatar. In tutto, circa 140 giocatrici, funzionari e allenatori e 29 giocatrici di basket con i loro familiari si sono temporaneamente rifugiati in Albania.
La FIFA, federazione con sede a Zurigo, ha indicatoCollegamento esterno che le persone hanno dovuto abbandonare l’Afghanistan perché “correvano un grave pericolo visto che avevano promosso le attività sportive femminili”. Lo scorso autunno, uno studio dell’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati ha evidenziatoCollegamento esterno che le atlete erano “particolarmente a rischio sotto il nuovo regime”.
Il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) scrive di aver sollecitato i talebani a salvaguardare i diritti delle donne e delle ragazze.
“Tutte le persone, anche le donne e le ragazze, devono avere la possibilità di praticare uno sport”, indica il DFAE a SWI swissinfo.ch, ricordando l’impegno della Svizzera in questo ambito attraverso il Centro per lo sport e i diritti umani.
La Svizzera è un membro fondatore del Centro, un’organizzazione senza scopo di lucro creata a Ginevra nel 2018 che s’impegna nella promozione del rispetto dei diritti umani, tra cui la possibilità per le donne e le ragazze di praticare uno sport. Il Centro non ha voluto rilasciare un’intervista a SWI swissinfo.ch, ma in una risposta scritta ci fa sapere che “dietro le quinte, in maniera discreta, si è prodigato nel creare i contatti tra Governi, attivisti, federazioni sportive internazionali e agenzie dell’ONU che operano sul campo e lavorano per permettere alle atlete di lasciare l’Afghanistan in modo sicuro”.
La FIFA, come molte altre istituzioni sportive internazionali, chiede agli Stati che annoverano una squadra nazionale maschile in una disciplina, di creare anche la compagine femminile. La federazione ricorda che “non c’è spazio per la discriminazione nel calcio”.
L’Afghanistan continua a schierareCollegamento esterno una squadra maschile, che nella classifica FIFA si trova in 150esima posizione. La squadra femminile, invece, non ha più giocato da quando i talebani sono tornati al potere.
Anche se Armisa e Sahar sono contente che molte giocatrici abbiano potuto ricominciare gli allenamenti nei Paesi in cui hanno trovato rifugio, sono però preoccupate per quelle che vivono nell’incertezza. Per esempio, le atlete che la FIFA ha trasferito in Albania non sanno ancora quale sarà la loro prossima e definitiva destinazione. Contattata da SWI swissinfo.ch, la federazione ha spiegato di essere “in contatto con varie autorità e organizzazioni […] affinché trovino una casa permanente”.
Secondo Sahar e Armisa, gli Stati dovrebbero essere più generosi in materia di politica di reinsediamento. “Queste donne stanno cercando un Paese sicuro che le accolga”, dice Sahar. “Sta ai Governi aprire le loro frontiere e dare loro accoglienza”.
La Segreteria di Stato della migrazione (SEM) spiega a SWI swissinfo.ch che alla Svizzera non è giunta alcuna domanda di accoglienza per le sportive che si trovano in Albania. La SEM ha solo concesso un lascia passare a 38 cicliste, allenatori e familiari, permesso richiesto dall’Unione ciclista internazionale che ha la sua sede a Losanna e che ha coordinato la loro fuga.
Armisa e Sahar ricordano che molti membri di squadre nazionali si trovano ancora in Afghanistan. Mara Gubuan, fondatrice di Equality LeagueCollegamento esterno, ONG con sede negli Stati Uniti, indica che oltre cento atlete, soprattutto cestiste e calciatrici, si trovano ancora in Afghanistan. Equality League si batte per le pari opportunità nello sport e ha collaborato con la FIFA nell’ambito dell’evacuazione delle sportive afghane.
Le leader di domani
Gubuan spera che chi è ancora in pericoloCollegamento esterno riesca a trovare un modo per fuggire, nonostante le difficoltà logistiche, amministrative e relative alla sicurezza. Teme che sul lungo termine la fuga delle sportive possa avere delle ripercussioni negative sulla società afghana. “È straziante”, dice Gubuan. “Lo sport favorisce la formazione di leader per vari settori della società. I talebani indeboliranno l’Afghanistan con la loro politica che esclude le donne”.
Armisa e Sahar vogliono diventare una di queste future leader, anche se vivono in esilio. Sahar sta ultimando la sua formazione nell’ambito della tecnologia dell’informazione e della comunicazione. L’organizzazione degli allenamenti settimanali, in collaborazione con Mazay, organizzazione che sostiene i rifugiati, ha ridato un nuovo obiettivo nella vita della due calciatrici.
Sahar dice che aver ottenuto il permesso di residenza in Svizzera, dopo aver vissuto qui gli ultimi sei anni, è stato come “nascere una seconda volta”. È però molto preoccupata per la situazione delle donne in Afghanistan e nei Paesi confinanti e afferma che la mancanza di risposte da parte della comunità internazionale è molto frustrante. “Molte donne sono scese per strada a chiedere il rispetto dei loro diritti, ma nessuno le ha ascoltate ed aiutate”, afferma il giorno dopo l’allenamento, con il viso illuminato dal sole, mentre siede in un parco a poca distanza da Palazzo federale.
Mentre ci racconta la sua storia, una grande folla riunitasi sulla Piazza federale sta ascoltando il discorso del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, decine di migliaia di persone rifugiate dall’Ucraina sono giunte in Svizzera e hanno ottenuto un permesso di soggiorno speciale, il permesso S.
Dopo l’avvento al potere dei talebani e la conseguente fuga precipitosa degli afghani, il Governo elvetico ha accolto soltanto 300 rifugiati afghani, la maggior parte era personale della Direzione per lo sviluppo e la cooperazione e i suoi familiari. “Spero che i Governi del mondo non dimentichino le donne dell’Afghanistan”, dice Armisa, con un filo di voce, mentre le campane della vicina chiesa iniziano a suonare.
Traduzione dall’inglese: Luca Beti
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