Un paziente francese trasferito in Svizzera racconta
Il francese Jean-Paul Martin è stato trasferito in Svizzera, al reparto di terapie intensive delll'ospedale cantonale di Friburgo, qui nell'immagine.
Keystone / Anthony Anex
Quando in marzo l'ondata di coronavirus ha travolto l'Europa, gli ospedali francesi si sono ritrovati ai limiti delle capacità, mentre la Svizzera ne aveva ancora. In ospedali elvetici sono stati ricoverati 49 pazienti francesi della regione di confine. Uno di loro era Jean-Paul Martin. Ecco la sua storia.
Questo contenuto è stato pubblicato al
6 minuti
Dirigo una squadra multilingue incaricata di coprire l’attualità degli svizzeri e delle svizzere all’estero per fornire loro le informazioni necessarie per partecipare alla vita politica nella Confederazione.
Dopo gli studi in scienze politiche a Neuchâtel e Berna, ho fatto i primi passi nel giornalismo multimediale presso Teletext poi alla RTS. Lavoro dal 2008 a SWI swissinfo.ch, dove ho occupato diverse funzioni giornalistiche e di quadro.
Corrispondente a Palazzo federale per SWI swissinfo.ch, decodifico la politica federale per le svizzere e gli svizzeri all’estero.
Dopo gli studi presso l’Accademia di giornalismo e dei media dell’Università di Neuchâtel, il mio percorso professionale mi ha dapprima portato nei media regionali, nelle redazioni del Journal du Jura, di Canal 3 e di Radio Jura bernois. Dal 2015, lavoro nella redazione multilingue di SWI swissinfo.ch, dove continuo a svolgere il mio mestiere con passione.
Coronavirus: le buone relazioni franco-svizzere attivate per salvare delle vite
Questo contenuto è stato pubblicato al
Vari cantoni svizzeri hanno accolto pazienti francesi in modo da aiutare gli ospedali sovraffollati della regione Grand Est e Franche-Comté.
“Sono caduto in un grande buco nero”. Jean-Paul Martin descrive il coma artificiale in cui è stato immerso per 16 giorni, un periodo sospeso tra la vita e la morte.
La sua lotta contro la Covid-19 condotto il francese 67enne in Svizzera. Trasferito all’ospedale di FriburgoCollegamento esterno per alleviare gli ospedali nella regione francese del Grand Est, sovraccaricati dalla pandemia, è stato intubato per poco più di due settimane in terapia intensiva, al fine di aiutare i suoi polmoni a fare il loro lavoro e sconfiggere la malattia.
Ora Jean-Paul Martin è salvo. Lo abbiamo contattato telefonicamente qualche giorno prima che lasci l’ospedale di Colmar per un vicino centro di riabilitazione per farci raccontare la sua tragica esperienza.
Spese ospedaliere a carico dell’assicurazione francese
Di fronte al sovraccarico degli ospedali francesi nella regione del Grand Est durante il picco della pandemia di coronavirus, un’eletta locale, Brigitte Klinkert, ha contattato i vicini cantoni svizzeri per chiedere aiuto. La sua richiesta è stata accolta. In totale, 49 pazienti francesi affetti da Covid-19 sono stati ricoverati in ospedale in Svizzera e altri 80 in Germania. Mentre quest’ultima ha deciso di sobbarcarsi i costi del ricovero in ospedale, la Svizzera non fa un gesto analogo. L’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) indica che “i costi di trattamento saranno fatturati all’assicurazione sanitaria francese, con le stesse tariffe applicate agli assicurati svizzeri”.
Il nulla
Lui e sua moglie Monique si sono ammalati contemporaneamente a metà marzo. “Tossivamo e avevamo la febbre”, rammenta. Poiché la coppia si era molto indebolita, il medico di famiglia si è recato a casa loro, nella cittadina alsaziana di Munster, per visitarli. Ha allora constatato che Jean-Paul Martin aveva un livello anormalmente basso di ossigeno nel sangue.
Il 25 marzo, il pensionato è stato ricoverato in ospedale a Colmar. “Ricordo ancora di aver mangiato qualcosa il giorno dopo a mezzogiorno, poi c’è il vuoto assoluto. Mi sono svegliato 16 giorni dopo a Friburgo “, aggiunge. Si considera “fortunato”, dato “alcuni sono in coma da più di 50 giorni”. Oggi riesce a parlare della sua esperienza: “È un sonno profondo. Mi sono detto che quelli che sono morti dopo essere stati in coma non si sono resi conto di nulla”.
Jean-Paul Martin parla con la moglie tramite videoconferenza.
zvg
Il risveglio
Il paziente impiega un certo tempo per rendersi conto che è stato trasferito in Svizzera, Paese che conosce un po’ poiché è stato in visita da familiari espatriati. I suoi ricordi del ricovero in Svizzera sono confusi. “Nel mio letto d’ospedale, ho immaginato il Lago di Gruyère, vicino al quale ero spesso passato”. A poco a poco, gli tornano in mente alcune frasi o frammenti di conversazione. “Ricordo che un’infermiera mi ha detto: ‘La rado in modo che abbia di nuovo un bell’aspetto'”.
Ogni giorno, il personale infermieristico dell’ospedale di Friburgo informa Monique Martin dello stato di salute di suo marito. “È un legame molto importante e rassicurante. Senza di esso, le famiglie non sanno cosa sta succedendo al loro parente. In Francia, è più difficile avere informazioni”, commenta il paziente ora convalescente.
La gratitudine
Il 16 aprile, le condizioni del paziente alsaziano sono stabilizzate. Può dunque tornare all’ospedale Pasteur di Colmar. Ancora disorientato e debole, egli non ricorda il ritorno. “Non ho ancora richiesto il mio incarto per sapere se sono stato trasportato in elicottero. Al mio arrivo in Francia, quando mi chiedevano dove mi trovassi, rispondevo ancora: ‘in Svizzera’”.
Col passare dei giorni, l’impiegato del comune di Munster in pensione riacquista forza e comincia a riuscire a mettere insieme i diversi pezzi del puzzle. “Mi rendo conto solo ora cosa mi è veramente successo”, dice al telefono. Ritiene di essere stato molto fortunato ed esprime la sua gratitudine nei riguardi degli operatori sanitari che si sono presi cura di lui, in Svizzera e in Francia. “Ringrazio anche i politici per i loro sforzi per agevolare il trasferimento di pazienti tra paesi”, aggiunge.
“È un sonno profondo. Mi sono detto che quelli che sono morti dopo essere stati in coma non si sono resi conto di nulla” Jean-Paul Martin
La solitudine
Fisicamente, Jean-Paul Martin sta meglio, ma la solitudine gli pesa. Da un mese, è completamente isolato, per prevenire il rischio di infettare altre persone. Vede solo gli operatori sanitari, dei quali indovina i volti dietro le loro mascherine protettive. “Mi mancano molto le relazioni umane”.
Jean-Paul Martin si occupa della manutenzione dei sentieri pedestri della regione tramite il Club Vosgien.
zvg
Naturalmente, può parlare con la sua famiglia in videoconferenza grazie ai tablet messi a disposizione dall’ospedale. Ma questo difficilmente sostituisce un contatto fisico. “Ci sentiamo, ci vediamo, ma è passato più di un mese da quando ci siamo abbracciati”, commenta Jean-Paul Martin. In attesa d’incontrare di nuovo moglie, figlia e nipote, pensa al ritorno a casa e già sogna di poter fare di nuovo una passeggiata nella natura.
La natura
Nella conversazione, la parola natura compare spesso. Jean-Paul Martin è vicino ad essa. Dedica il suo tempo libero alla sua protezione, in seno al Club VosgienCollegamento esterno. È anche la natura “che ha voluto che fosse ancora qui”. In tempi di crisi, “la natura ci ricorda che non siamo al di sopra di essa, che un virus può sconvolgere tutto, le nostre vite, le nostre relazioni, la nostra economia”.
Ritrovare i familiari, continuare a prendersi cura della madre di 88 anni, percorrere di nuovo i sentieri che aiuta a tenere puliti. Ecco come Jean-Paul Martin immagina il suo ritorno alla normalità. “Apprezzerò ancora di più la vita. Ci sono piccole seccature quotidiane, ma non vale la pena ingigantirle”.
Altri sviluppi
Altri sviluppi
Coronavirus in Svizzera, immagini di un paese segnato dall’epidemia
Questo contenuto è stato pubblicato al
Vita quotidiana in Svizzera durante il lockdown.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.
Per saperne di più
Altri sviluppi
Coronavirus: i numeri in Svizzera
Questo contenuto è stato pubblicato al
Qui trovate le cifre e i dati più importanti e aggiornati sull'evoluzione della pandemia di coronavirus in Svizzera.
“Tutti vogliono i nostri apparecchi per la respirazione”
Questo contenuto è stato pubblicato al
Gli apparecchi per la respirazione possono salvare migliaia di vite umane. Leader globale del settore è l'azienda svizzera Hamilton.
Questo contenuto è stato pubblicato al
Perché le persone sane in Svizzera non dovrebbero indossare mascherine protettive? È perché occorre garantirle al personale di cura?
“Solidarietà naturale” degli svizzeri all’estero di fronte all’isolamento
Questo contenuto è stato pubblicato al
Confinamento, quarantena, restrizioni: la pandemia di coronavirus è sinonimo di solitudine per molti svizzeri all'estero.
Chi viene curato e chi viene lasciato morire in Svizzera?
Questo contenuto è stato pubblicato al
I medici in Svizzera rischiano di ritrovarsi come in Italia nella drammatica situazione di dover decidere chi trattare tra i pazienti affetti da Covid-19.
In Italia i reparti di terapia intensiva sono talmente oberati da casi di coronavirus che il personale ospedaliero deve decidere chi curare e chi lasciare morire, proprio come in guerra. Ciò potrebbe presto accadere anche in Svizzera. Quali sono i criteri utilizzati dai medici per decidere in casi simili?
Nella crisi provocata dalla pandemia di Covid-19, i pazienti giovani devono essere trattati in priorità e quelli più anziani devono essere lasciati morire? Le mamme e i papà di bambini piccoli devono avere la precedenza per il respiratore, in modo da non lasciare orfani? Un novantenne non dovrebbe essere curato in terapia intensiva perché non ha comunque più molto tempo da vivere?
In Italia, in questo momento i medici si disperano di fronte a dilemmi così drammatici. Nel Paese vicino, solo un paziente su quattro che necessita di respirazione artificiale può essere collegato a una macchina. Per questo motivo i medici sono costretti trattarne una parte solo in modo palliativo.
L'Accademia svizzera delle scienze mediche (ASSM) ritiene che la velocità con cui il virus si diffonde in Svizzera porterà a intoppi analoghi anche nei reparti di terapie intensive degli ospedali elvetici.
La Svizzera ha troppo pochi letti, troppo pochi respiratori e troppo poco personale per il numero previsto di pazienti affetti da coronavirus. È quindi solo questione di tempo prima che anche il personale ospedaliero svizzero debba prendere decisioni difficili.
Decisione eticamente giustificabile
In una nota pubblicata sul sito web il 10 marzo, l'ASSM fa riferimento alle sue direttive medico-etiche sui "provvedimenti di medicina intensiva", che sono applicabili anche alla situazione della pandemia di coronavirus. Queste descrivono i criteri secondo i quali deve essere effettuato un triage dei pazienti eticamente giustificabile, "in caso di risorse esigue o carenti".
Le linee guida stabiliscono chiaramente che l'età, il sesso, lo status sociale, la nazionalità, la religione o la disabilità non devono avere un ruolo nella decisione.
"Se in situazioni di catastrofe, come ad esempio in caso di pandemia, non è più possibile trattare in medicina intensiva tutti i pazienti, occorre accertarsi che il triage avvenga secondo principi etici. I criteri applicati devono essere motivati in modo oggettivo ed essere trasparenti", si legge nelle direttive dell'ASSM, nelle quali si precisa che la procedura deve essere imparziale e "avvenire sotto la direzione di persone affidabili ed esperte, tenute a rendere conto del proprio operato".Ein 70-Jähriger mit guten Überlebenschancen wird an die Beatmungsmaschine angeschlossen. Eine 27-jährige Mutter, die wegen einer schweren Begleiterkrankung eine schlechte Prognose hat, wird dem Tod überlassen.Decisiva la prognosi a breve termine
In una situazione di catastrofe come quella che ci si attende con la Covid-19, secondo le linee direttive dell'ASSM, "hanno priorità assoluta i pazienti la cui prognosi è buona con trattamento intensivo, ma sfavorevole senza di esso", mentre i pazienti con prognosi sfavorevole, che in circostanze normali sarebbero trattati in terapia intensiva, vengono trattati al di fuori del reparto. In altri termini, questi ultimi ricevono trattamenti palliativi.
In questo contesto, per la valutazione della prognosi "sono determinanti le probabilità di sopravvivenza a breve termine al trattamento intensivo". Non rientra invece nei criteri di decisione l'aspettativa di vita a medio o più lungo termine, puntualizzano le direttive.
Tradotto in altre parole, ciò significa che un settantenne senza altre malattie concomitanti, che ha buone possibilità di sopravvivenza in terapia intensiva, va collegato al respiratore, mentre una madre di 27 anni, che ha una prognosi negativa a breve termine a causa di una grave malattia concomitante, viene lasciata morire.i
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.