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«Di fronte alle disuguaglianze, il nostro sistema di regolazione non funziona più»

Secondo Peter Niggli, la crescita delle disuguaglianze è uno dei fattori determinanti della crisi dalla fine degli anni ’70. swissinfo.ch

Peter Niggli si appresta a lasciare la direzione di Alliance Sud, la comunità di lavoro delle organizzazioni svizzere di aiuto allo sviluppo. Non è però sicuro di lasciare il pianeta in uno stato migliore di quando ha iniziato. A qualche giorno dal pensionamento, confida alcune sue indignazioni, soddisfazioni e speranze. Intervista.

Studente di matematica, filosofia e storia, Peter Niggli ha iniziato come attivista rivoluzionario a Zurigo negli anni ’70. Responsabile delle pubblicazioni dei movimenti alternativi, diventa in seguito giornalista indipendente, fornendo alla stampa analisi economiche e reportage dall’Africa.

Autore o coautore di libri sull’estremismo di destra e sulla cooperazione allo sviluppo, è stato anche consigliere comunale (ecologista) a Zurigo, osservatore elettorale in Etiopia e presidente del consiglio di fondazione di Greenpeace. Alla fine di luglio, Peter Niggli, classe 1950, lascia la direzione di Alliance SudCollegamento esterno, che occupava dal 1998.

Tra le lotte che ricorda più volentieri c’è la campagna del 2011 in favore dell’attribuzione dello 0,7% del Prodotto interno lordo della Svizzera alla cooperazione allo sviluppo e il compromesso allo 0,5% che ha ottenuto lavorando ai fianchi quasi tutti i deputati in parlamento. «Ci siamo riusciti con uno dei peggiori parlamenti della nostra storia, praticamente dominato dall’UDC [Unione democratica di centro, destra conservatrice] e dai radicali [destra classica]», si rallegra quest’uomo dal pensiero chiaro, a cui non piacciono né i mezzi termini né i discorsi vuoti.

swissinfo.ch: Quindici anni fa, le Nazioni Unite hanno fissato gli Obiettivi del Millennio (MDG), il cui scopo era di dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015. Ora ci siamo: il pianeta sta meglio?

Peter Niggli: Difficile dire. Ci sono dei progressi e delle regressioni. Alcuni paesi in sviluppo, soprattutto in Asia, hanno compiuto grandi progressi economici. Hanno digerito abbastanza bene la crisi finanziaria che ha toccato il suo apice nel 1998. Quindici anni dopo gli Obiettivi di sviluppo del MillennioCollegamento esterno notiamo che si è investito un po’ di più nella cooperazione allo sviluppo. E ci sono governi, in particolare in Africa, che hanno investito maggiormente nell’istruzione o nella sanità. In questo senso, sono stati fatti dei passi avanti.

«I rapporti di forza politici e sociali non sono nella buona configurazione per cambiare la situazione».

Per ciò che riguarda la situazione globale del pianeta, sappiamo dal 2008 che l’economia mondiale è in crisi e che il sistema di regolazione non funziona più. Ci troviamo in una fase di transizione, che dura oramai da molto tempo, e non intravvedo delle forze politiche pronte a trarne le conseguenze. In questo senso, il futuro è incerto.

Quando ho iniziato ad andare al sud, la situazione era totalmente diversa. Le élite dei paesi sviluppati pensavano di aver trovato la ricetta per una congiuntura ad alti livelli ed eterna. «Siamo in una nuova economia, senza crisi, senza cicli congiunturali, abbiamo trovato la formula magica di un progresso economico eterno…», è stato detto a chiare lettere a Davos davanti ai nostri consiglieri federali. Ma i tempi sono cambiati. Oggi questo appare ridicolo e nessuno lo dice più.

swissinfo.ch: Ciò che si vede sono piuttosto le disuguaglianze. Non soltanto al sud, ma anche nei paesi ricchi e in quelli emergenti…

P. N.: La crescita delle disuguaglianze. È uno dei fattori determinanti della crisi dalla fine degli anni ’70. Lo sanno tutti. Oggi se ne discute, ma cosa fare? Nei paesi ricchi si è facilitato il credito per compensare la stagnazione dei salari. È questa piramide di crediti ad essere esplosa nel 2008, dando origine alla crisi finanziaria. I salari che non aumentavano più sono stati sostituiti con la produttività attraverso dei crediti. Ma il credito è un affare per chi lo accorda. Non funziona, è risaputo. Ma cosa fare? Aumentare i salari? Ridurre i tempi di lavoro? Riconnettere produttività e salari? In questo momento i rapporti di forza politici e sociali non sono nella buona configurazione per cambiare la situazione.

swissinfo.ch: Dopo gli MDG, in occasione della conferenza di New York di settembre l’ONU dovrebbe lanciare dei nuovi obiettivi, per lo sviluppo sostenibile, con una scadenza nel 2030. Cosa si aspetta?

P. N.: Vogliamo approfittare della dinamica creata dai primi MDG. Anche se non erano previste sanzioni contro chi non avrebbe fatto nulla, c’è stata una sorta di competizione, ciò che ha pure mobilitato la società civile. Vogliamo proseguire su questo slancio.

Questi nuovi obiettiviCollegamento esterno sono abbastanza buoni e sono universali. Gli MDG concernevano quasi esclusivamente i governi dei paesi in sviluppo, mentre quelli nuovi riguardano tutti i governi. Ad esempio, se la Svizzera vorrà raggiungerli dovrà fare qualcosa all’interno del paese. Non basterà dire al Ghana «dovete fare qualcosa». Si tratta di una dinamica nuova, a cui siamo abbastanza interessati. Vedremo se funzionerà. Una delle nostre priorità per i prossimi anni sarà di smuovere le cose in Svizzera.

Alliance Sud

È la comunità di lavoro che riunisce sei organizzazioni private svizzere di auto allo sviluppo: Swissaid, Sacrificio Quaresimale, Pane per tutti, Helvetas, Caritas e Associazione delle Chiese evangeliche HEKS/EPER.

Il suo ruolo è di intervenire sul terreno e, come enunciato nei suoi obiettivi, «di influenzare la politica della Svizzera in favore dei paesi poveri».

Concentra i suoi sforzi principalmente nella cooperazione allo sviluppo, il commercio internazionale, l’ambiente e il clima, la finanza internazionale, la piazza finanziaria svizzera e le multinazionali.

Alliance Sud svolge innanzitutto un lavoro di lobby, d’informazione e di documentazione (con due centri di documentazione aperti al pubblico). Produce inoltre materiale pedagogico per le scuole.

swissinfo.ch: Ha menzionato il sostegno della società civile. Questo rimane forte, considerati i ripiegamenti nazionalistici e la paura dei migranti che si osserva un po’ ovunque?

P. N.: È un pericolo. In un’Europa in cui lo stato sociale continua a effettuare tagli nelle sue prestazioni, non è facile dire alla gente che bisogna pagare delle imposte per sostenere i poveri nei paesi del sud. Va ricordato che in Svizzera, su 100 franchi prodotti dall’economia paghiamo 35 franchi per lo stato sociale e 49 centesimi per l’aiuto allo sviluppo.

In merito all’afflusso di migranti, non va dimenticato che quelli che giungono in Europa rappresentano una piccola parte della migrazione globale. Gli eritrei, ad esempio, se hanno l’occasione di andare in Arabia Saudita o altrove nel Golfo, lo fanno. Lì possono lavorare, guadagnare e sostenere le loro famiglie. Ovunque nel mondo, quando un paese è un po’ più ricco rispetto a quelli vicini, c’è una migrazione che viene alla ricerca di lavoro. Anche all’interno dell’Africa. L’Africa del Sud attira persone, il Nigeria attira persone.

swissinfo.ch: Non c’è soltanto il flusso di migranti. Ci sono anche i flussi commerciali e finanziari. Il sud è in grado di aiutare il sud?

P. N.: Negli ultimi 15 anni il sud ha già avuto un grande influsso sulla congiuntura in America latina e in Africa. Non con l’aiuto allo sviluppo, ma a causa del grande bisogno di materie prime, soprattutto da parte della Cina e dell’India per la loro rapida industrializzazione. L’Africa, che dagli anni ’80 era in una situazione economica disastrosa, ha visto ridecollare le sue esportazioni di materie prime. Al contempo, Cina, India e Brasile hanno iniziato a investire in Africa, nelle industrie estrattive e anche nell’agricoltura. Ciò ha contribuito alla crescita di questi paesi. Ma ad approfittarne sono stati soprattutto i ricchi, non i poveri.

Uno dei rischi della crisi o della stagnazione dell’economia mondiale attuale è che la domanda cinese, indiana o di un altro paese crolli in America latina e in Africa. E siccome questi paesi non hanno ancora diversificato molto le loro economie, potrebbero pagarne le conseguenze.

swissinfo.ch: Una parola sui paesi della primavera araba, dopo diverse speranze disilluse. Cosa risponde a coloro che giustificano le controrivoluzioni o che spiegano il caos dicendo che alcuni popoli non sono maturi per la democrazia?

P. N.: Non credo a una sola parola. Non ci sono culture fisse, non ci sono determinanti genetici. Oltre 100 anni fa si diceva che i cinesi erano incapaci di lavorare, che l’unica cosa che facevano era fumare oppio. Basta guardare cosa succede oggi…

No, si tratta di pregiudizi culturalisti che sono sempre falsi. Nei paesi arabi abbiamo avuto una bella rivoluzione e una dura contro rivoluzione, ed è quest’ultima che attualmente domina, salvo per ora in Tunisia. Ma c’è sempre una speranza.

Traduzione dal francese di Luigi Jorio

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