Formazioni per aiutare gli imam a immergersi nella realtà svizzera
Il Centro svizzero islam e società (CSIS) dell'Università di Friburgo ha completato per la prima volta in autunno un ciclo di formazione continua per gli imam. Quest'offerta di dodici mesi ha suscitato un grande interesse: più della metà dei 120 imam in Svizzera ha partecipato ai vari corsi proposti. Per i religiosi musulmani è stata un'occasione per familiarizzare con la realtà elvetica e per imparare a gestire le molte sollecitazioni. Il bilancio del primo anno di formazione con Hansjörg Schmid, direttore del CSIS.
SWI swissinfo.ch: In cosa consisteva concretamente questa offerta?
Hansjörg Schmid: È stata un’offerta su misura, poiché esistono due grandi gruppi di imam. Ci sono coloro che arrivano in Svizzera e hanno bisogno di un servizio di orientamento per meglio comprendere il contesto giuridico, il posto della religione nella sfera pubblica oppure ancora la situazione della comunità e delle persone giovani. Si trattava quindi di corsi introduttivi.
Abbiamo poi un secondo tipo di corso più pratico per imam già presenti da diversi anni in Svizzera. C’erano due seminari dedicati alla comunicazione in senso ampio, uno sulla comunicazione in seno alla comunità – per esempio una riflessione su cosa significa predicare tenendo conto dei bisogni dei gruppi a cui ci si rivolge – e uno sulla comunicazione alla società, al fine di poter meglio collaborare con le varie amministrazioni.
È importante che gli imam possano in seguito mettere in pratica ciò che hanno imparato meglio in questi corsi. L’accento è stato messo anche su un’apertura verso la società, con porte aperte e incontri. Per esempio, un imam ha organizzato una donazione di sangue con la Croce Rossa per inserirsi di più nel contesto della società civile svizzera.
Qual è il problema più grande con cui si confrontano questi imam nella loro attività in Svizzera?
La grande varietà delle aspettative e delle esigenze con cui sono confrontati rappresenta una vera sfida. È un po’ come se l’imam fosse considerato una sorta di strumento miracoloso, un “super imam” che offre soluzioni a tutti i problemi personali in seno alle comunità e al contempo svolge il ruolo di interlocutore con le autorità in caso di problemi con i giovani, di difficoltà di integrazione o di processi di radicalizzazione. Si pensa che gli imam siano esperti in ognuno di questi ambiti ed è difficile per loro disporre di tutte le competenze necessarie e gestire le molte sollecitazioni.
È una realtà specifica del contesto migratorio. In Turchia, l’imam è piuttosto la persona che apre la moschea, dirige la preghiera o predica. Qui in Svizzera, il suo ruolo si allarga considerevolmente verso un accompagnamento dei membri della sua comunità. È un ruolo sociale in cui funge da mediatore.
Gli imam stessi arrivano da comunità diverse. Ci sono differenze nell’ambito delle loro aspettative e dei loro problemi?
Ci sono molte cose in comune, ma la formazione e il reclutamento degli imam sono diversi. Gran parte degli imam turchi – una trentina – è reclutata tramite una procedura ufficiale. Queste persone sono inviate in Svizzera con lo statuto di funzionario turco per un periodo generalmente di cinque anni. Ci sono sfide specifiche legate a questa situazione poiché spesso non conoscono bene la lingua o la cultura locale.
Per le comunità albanofone e bosniache gli imam restano in funzione molto più a lungo; c’è quindi un radicamento nella società svizzera. Tra gli arabofoni, molti imam attivi attualmente non sono arrivati con una formazione classica da imam, ma sono giunti in Svizzera per studiare o lavorare. Avendo buone conoscenze religiose, sono poi stati reclutati da alcune comunità nella Confederazione.
Qualche anno fa, in seguito agli attentati di matrice islamica, il fatto che gli imam potessero predicare in lingue straniere e quindi potenzialmente fare discorsi radicali senza poter essere compresi dalle autorità aveva suscitato polemica in Francia, in Belgio e anche in Svizzera. Questa questione di lingua è evoluta?
Sì, molto; si può parlare di un cambiamento di paradigma. Sempre di più, gli imam predicano nella loro lingua d’origine e nella lingua locale. Le comunità diventano multilingue in modo spontaneo, poiché la giovane generazione nata in Svizzera è spesso più a suo agio con le lingue nazionali rispetto alla lingua d’origine. Delle stime indicano che almeno nella metà delle moschee i sermoni sono pronunciati in due lingue.
Si tratta di una tendenza molto chiara e di un forte segnale che l’islam e gli imam sono diventati una realtà svizzera, più che straniera. L’evoluzione continuerà in tutta probabilità in questa direzione; tra dieci o vent’anni, sarà normale predicare nelle lingue nazionali.
Un altro problema regolarmente evocato è quello del finanziamento e della formazione degli imam d’Europa da parte della Turchia e dei Paesi del Golfo, un fenomeno non per forza neutro. Si nota un’evoluzione anche in questo ambito o il problema è sopravvalutato?
Spesso è sopravvalutato, poiché ogni imam ha il suo carattere, il suo percorso, le sue motivazioni, anche se si è formato altrove. Vanno considerati come individui con il proprio modo d’agire e non bisogna metter loro immediatamente l’etichetta di un’istituzione “turca” o “araba”.
Detto ciò, la questione potrebbe porsi soprattutto per gli imam turchi, inviati da Ankara. Tuttavia, abbiamo potuto constatare nei nostri corsi l’assenza di un discorso politico, il che è d’altronde conforme alle direttive per questi imam. Inoltre, la formazione universitaria turca in teologia islamica integra un’apertura interdisciplinare, per esempio verso la psicologia, che può aiutare a gestire le situazioni delle comunità musulmane in Svizzera.
Gli Stati del Golfo e soprattutto l’Arabia Saudita attribuiscono borse di studio per attirare studenti sperando che diffonderanno in seguito la loro concezione di islam, cosa che è meno compatibile con il contesto svizzero. Abbiamo comunque notato che anche una persona originaria, per esempio, dei Balcani che ha studiato in Arabia Saudita conserva il libero arbitrio e sa integrare gli aspetti meno rigorosi dell’islam che ha imparato in gioventù. Inoltre, il luogo di formazione non è tutto, molto dipende dall’individuo; ci si può radicalizzare anche se si è svolto tutto il percorso universitario in Svizzera.
A questo proposito, si può pensare che un giorno la formazione di base degli imam si svolga in Svizzera?
Non penso sia realistico al momento. Ci vorrebbero molte risorse per proporre un corso completo in teologia islamica in Svizzera. Esiste anche il rischio che l’ingerenza dello Stato nella formazione degli imam non venga accettata dalle comunità. Inoltre, il fatto di studiare all’estero conferisce una certa legittimità. Ritengo quindi che la soluzione attuale, ovvero una formazione di base all’estero e una formazione complementare in Svizzera, resti la più pragmatica.
Il fatto che, a parte il caso turco, le comunità scelgano il proprio imam apre la strada all’emergenza di un islam specificamente svizzero?
Sì, questo può contribuire, ma mi sta a cuore a sottolineare che non sono solo gli imam a costruire un islam svizzero. Per le generazioni più giovani, l’islam svizzero è già parte integrante della realtà di vita. Gli imam hanno sicuramente un ruolo, ma non sono onnipotenti. Come è il caso per i preti o per i pastori protestanti, i fedeli non mettono per forza in pratica tutto ciò che viene predicato. Constatiamo anche l’esistenza di un discorso critico, per esempio da parte delle donne, in disaccordo con gli imam che, secondo loro, trascurano la loro situazione.
Qual è, appunto, la situazione delle donne? Potremmo immaginare un giorno in Svizzera delle donne imam?
Secondo la tradizione maggioritaria nell’islam, sono gli uomini a svolgere questa funzione. Tuttavia, nelle comunità, sempre più donne hanno un ruolo attivo, per esempio nell’accompagnamento spirituale negli ospedali, nel lavoro con la gioventù o nell’educazione. Nelle nostre formazioni future, intendiamo integrare meglio le donne che garantiscono alcune funzioni da imam.
Un limite è rappresentato dal fatto che le comunità spesso hanno poche risorse. Molte donne lavorano a titolo volontario – così come alcuni imam d’altronde. Il fatto che le donne si impegnino in seno alle comunità è il segnale di una dinamica che un giorno, forse, porterà ad altre funzioni.
Traduzione: Zeno Zoccatelli
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