Fukushima, impatto limitato in Europa
La catastrofe nucleare di Fukushima avrà gravi conseguenze, ma soprattutto in Giappone. Nel resto del mondo, il pericolo non sarebbe paragonabile con quello di Cernobyl, affermano gli esperti. In Svizzera, come in Europa, l’allarme è del resto già rientrato.
«L’incidente alla centrale di Fukushima è molto grave. L’Agenzia internazionale dell’energia atomica l’ha classificato di livello 7, ossia il più elevato», ricorda Nicolas Gruber, fisico ambientale all’Istituto di biogeochimica e di dinamica delle sostanze inquinanti del Politecnico federale di Zurigo.
Per questo specialista dei cicli degli elementi nell’acqua, le conseguenze della catastrofe a livello di contaminazione radioattiva rimarranno tuttavia da «locali a regionali». Ossia limitate a un raggio di 100 a 200 chilometri attorno alla centrale.
Apparentemente la maggior parte degli elementi radioattivi liberati dalle esplosioni, dagli incendi e dalle fughe d’acqua sono finiti nell’oceano, anche se recentemente si è potuto constatare che il vento ha convogliato importanti quantità di particelle potenzialmente mortali fino in vallate situate al di là della zona di esclusione di 30 chilometri.
Dalle alghe ai grossi pesci
«Abbiamo ricevuto qualche giorno fa i risultati dei primi rilevamenti effettuati dai giapponesi nel mare nei pressi della centrale. Per il cesio 137, i livelli erano 300 volte superiori a quelli considerati accettabili e 1’000 volte più alti che prima dell’incidente». Una contaminazione ritenuta «seria e più o meno conforme a quanto ci si poteva aspettare», osserva lo specialista.
Il problema è che non tutte queste particelle si disperderanno rapidamente nell’oceano. Alcune rimarranno imprigionate nelle alghe e, quando queste moriranno, raggiungeranno i sedimenti sul fondale. Potranno a questo punto essere assorbite da vermi o molluschi, che a loro volta saranno mangiati da pesci sempre più grossi… alcuni dei quali finiranno nelle reti dei pescatori.
Questo processo è comunque lungo. Un tonno, ad esempio, per raggiungere un livello di contaminazione che lo rende pericoloso per l’uomo dovrà mangiare molto pesce contenente elementi radioattivi. Sapendo che il tempo di dimezzamento di un elemento come il cesio 137 è di 30 anni, la zona rimarrà pericolosa per molto tempo, forse per più di cent’anni.
Se fosse il responsabile di questo settore, Nicolas Gruber vieterebbe immediatamente la pesca e analizzerebbe in modo dettagliato la distribuzione delle sostanze inquinanti, prima di decidere quali misure adottare a lungo termine.
La soluzione di pulire i fondi marini, come avviene a volte nei casi di inquinamento chimico, è lungi dall’essere una panacea. «Grattando» i fondali si liberano infatti numerose particelle che possono rendere la cura peggiore del male. Per il professore zurighese, è meglio quindi lasciare gli elementi radioattivi là dove si trovano, chiudere la zona e aspettare che vengano ricoperti da nuovi sedimenti.
Una goccia nell’oceano
Per quanto concerne le particelle rimaste in sospensione nell’acqua, il volume dell’Oceano Pacifico è tale che anche se la corrente le trasportasse fino alle coste della California, la diluizione farà sì che avranno un impatto più che limitato. «Le preoccupazioni riguardano le coste del centro del Giappone, riassume Nicolas Gruber. Anche in Cina non si osserverà il minimo cambiamento dei tassi di radioattività».
In altri termini, una goccia nell’oceano. E nell’atmosfera? Come quella di Cernobyl, la nuvola di Fukushima ha fatto il giro del mondo e seminato un po’ dappertutto atomi di iodio 131, cesio 137, stronzio 90 e altri elementi radioattivi. Ma anche nel caso dell’atmosfera, la concentrazione di particelle è estremamente ridotta.
La Svizzera dispone di un sistema di sorveglianza della radioattività nell’aria, considerato molto efficace. Tramite una rete di filtri a livello del suolo e altri che possono essere installati su aeroplani, è possibile scoprire tracce di elementi radioattivi il cui livello è di un milione di volte inferiore al limite ammesso.
Viceresponsabile della sezione radioattività ambientale all’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), Philipp Steinmann rassicura: le concentrazioni «un po’ più elevate» di elementi radioattivi (soprattutto lo iodio 131) misurate all’inizio della crisi sono completamente sparite da inizio maggio. E anche quando è stato raggiunto il picco, le concentrazioni erano comunque «in media da 1’000 a 10’000 volte inferiori a quelle registrate dopo Cernobyl».
A fine aprile, l’UFSP ha così potuto disattivare la ‘hotline’, che ha risposto a circa 800 telefonate. Le pagine speciali del sito internet dedicato all’incidente nucleare in Giappone sono invece state consultate 70’000 volte nel mese successivo alla catastrofe. Da allora, il ‘traffico’ è tornato normale.
Per l’UFSP, che tra alcuni giorni pubblicherà un ultimo comunicato su Fukushima e continuerà ad effettuare delle misurazioni, il caso può quindi essere considerato chiuso.
Niente sushi radioattivo
Rimane però un altro punto interrogativo, ossia quello legato agli alimenti eventualmente contaminati che potrebbero finire nei nostri piatti. Anche in questo caso, però, i rischi sembrano minimi. Prima di tutto perché il Giappone, che acquista all’estero il 60% delle derrate alimentari, non è un grande esportatore di prodotti commestibili. Inoltre perché l’arcipelago si è autoimposto delle restrizioni, sia in materia di consumo che di esportazioni.
«Già in tempi normali arrivano pochi prodotti giapponesi; dopo l’incidente di Fukushima è stato registrato un ulteriore calo», conferma Philipp Steinmann. In accordo con la procedura adottata dall’Unione Europea, la Svizzera preleva e analizza dei campioni sulle rare derrate alimentari provenienti dal Giappone. Le dogane hanno controllato due partite di pasta, una di alghe secche, una di riso, una di patate dolci e una di spezie, senza trovare alcunché.
Chi apprezza il sushi, potrà pure continuare a consumarlo senza timori, poiché gli ingredienti di questa specialità nipponica venduta in Svizzera non provengono praticamente mai dal Giappone.
La materia è composta d’atomi, formati da un nucleo (un agglomerato di protoni e neutroni) attorno al quale gravitano gli elettroni.
Gli elementi si differenziano dal numero di protoni ed elettroni. In natura esistono 92 elementi (o tipi d’atomo) stabili, dall’idrogeno (un protone e un elettrone) all’uranio (92 protoni e 92 elettroni).
Gli isotopi sono i diversi atomi di uno stesso elemento, che si differenziano dal numero di neutroni nel loro nucleo. Vengono designati con il nome dell’elemento seguito da una cifra (numero di protoni + numero di neutroni): carbonio 14, potassio 40, uranio 235 e così via. Uno stesso elemento può avere certi isotopi radioattivi e altri che non lo sono.
La radioattività è un emissione di raggi più o meno nocivi per la salute, che si produce quando atomi instabili si trasformano in atomi più stabili. Il fenomeno può avvenire naturalmente o essere provocato dall’uomo, con ad esempio una bomba atomica o un reattore nucleare.
Il tempo di dimezzamento di un elemento radioattivo è il tempo necessario affinché una certa quantità di questo elemento perda la metà della sua radioattività. Ciò non vuol dire naturalmente che dopo due cicli la radioattività scomparirà completamente. In realtà ne avrà persa di nuovo la metà, ossia un quarto di quella totale. Di modo che la radioattività non sparirà mai del tutto.
Tra gli elementi più conosciuti, lo iodio 131 ha un tempo di dimezzamento di otto giorni, il cesio 137 e lo stronzio 90 di 30 anni, il carbonio 14 di 5’700 anni, il plutonio 239 di 24’000 anni e l’uranio 238 di 4,5 miliardi di anni (l’età della Terra).
(Traduzione di Daniele Mariani)
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