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“I talebani non sono solo i cattivi”

Une famille afghane dans les rues de Kaboul
Una famiglia afghana nelle strade di Kabul, agosto 2021. Copyright 2021 The Associated Press. All Rights Reserved.

In vent'anni, anche i talebani sono cambiati. Ecco cosa ne pensa A.W.*, detentrice della doppia cittadinanza svizzera e afghana. Secondo lei, la visione occidentale sulla situazione è distorta.

A.W. nasce in Afghanistan in una famiglia con un passato socialista. Fugge dal Paese dopo l’ascesa al potere dei Mujahidin nel 1992. È un’adolescente quando con il padre, ex diplomatico e personalità politica afghana di primo piano, i fratelli e le sorelle trova rifugio in Svizzera.

Dopo dieci anni passati nella Confederazione, di cui la maggior parte a Ginevra, ottiene la naturalizzazione e diventa svizzera.

A.W. è attualmente consulente per la fondazione Earth Focus. Ha una grande esperienza nei settori dello sviluppo e dei diritti umani legati alla questione di genere e ha lavorato sia per organizzazioni civili che per istituzioni governative in Svizzera e all’estero. È titolare di una licenza in relazioni internazionali presso la Scuola di diplomazia e di relazioni internazionali di Ginevra (GSD) e di un diploma postlaurea in gestione dei conflitti e dello sviluppo conseguito all’Open University di Londra.

Nel 2013, ha la possibilità di ripartire nel suo Paese natio come collaboratrice di un’organizzazione non governativa specializzata nell’emancipazione delle donne. Dopo un anno, raggiunge la Direzione dello sviluppo e della cooperazione svizzera (DSC), divisione del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) incaricata delle attività di cooperazione internazionale. Per due anni, lavora con la DSC e in seguito un anno per l’ambasciata canadese a Kabul. Nel 2017, per ragioni familiari torna in Svizzera.

SWI swissinfo.ch: Com’era la situazione a Kabul quando vi abitava qualche anno fa?

A.W: La sicurezza era precaria, c’erano regolarmente degli attentati dinamitardi, ma la città era comunque più sicura del resto del Paese, dove era in corso una vera e propria guerra. Quando sono tornata nel mio Paese d’origine nel 2013, non sapevo cosa aspettarmi. Conoscevo la realtà sul terreno poiché ero tornata quattro volte in Afghanistan tra il 2001 e il 2013. Non uscivo molto per ragioni di sicurezza, anche a causa del passato politico della mia famiglia, che laggiù era ben noto.  

Come si è svolta la sua integrazione a Kabul?

Non era facile farsi accettare in quanto persona con doppia cittadinanza. Contemporaneamente, la conoscenza dei due Paesi mi ha permesso di costruire dei ponti, il che è stato un vantaggio in fin dei conti. Inoltre, non c’è solo una mentalità afghana, sono molteplici. Per stare al sicuro, è importante adattarsi di continuo alla realtà sul terreno.  Il fatto di essere una donna non ha comunque facilitato le cose.

A proposito delle donne: durante l’occupazione statunitense in questi ultimi vent’anni hanno ottenuto dei diritti che rischiano ormai di perdere sotto il regime talebano. Questo la preoccupa?   

Penso che la situazione delle donne sia inestricabilmente legata alla sicurezza e all’economia. Non è il momento giusto per occuparsi di questioni di genere. La popolazione vive in una povertà tale che, per il momento, bisogna concentrarsi sui bisogni primari come l’accesso al cibo, agli alloggi e alle cure.

Le donne afghane sono forti. L’hanno dimostrato durante tutti questi anni di sofferenza. Continueranno a battersi per difendere i loro interessi. Quelle che vivevano nelle città hanno potuto beneficiare del sistema instaurato dagli Occidentali e non faranno più marcia indietro.

La Catena della Solidarietà ha lanciato una raccolta fondi per la crisi in Afghanistan.

Le donazioni con la menzione “Afghanistan” possono essere effettuate online su www.catena-della-solidarieta.chCollegamento esterno o tramite e-banking al numero di conto IBAN CH82 0900 0000 1001 5000 6.

La Catena della solidarietà è un’istituzione incaricata di raccogliere fondi in casi di crisi e grave bisogno, creata dalla Società svizzera di radiotelevisione (SRG-SSR, di cui fa parte anche swissinfo.ch) e sostenuta da altri media.

E che ne è del resto della popolazione, che ha goduto di una certa libertà economica, politica e educativa?

Nei quattro anni che ho trascorso a Kabul, sono stata in contatto con tutte le fasce della società. Mi sembra che la classe media sia quella che ha approfittato di più della sicurezza relativa e delle opportunità economiche portate dalla comunità internazionale e dalle ong. Queste persone hanno ottenuto qualche diritto e libertà e benefici economici. Tuttavia, i poveri, che rappresentano la grande maggioranza degli afghani nelle zone rurali, non ne hanno potuto approfittare. Al contrario, sono sprofondati ancora di più nella povertà.

Il sistema economico attuale, che dipende dagli aiuti umanitari, sta per crollare a causa del blocco dei versamenti da parte delle istituzioni finanziarie internazionali e del congelamento delle riserve del Governo afghano da parte degli Stati Uniti.  Per me, questo dimostra chiaramente che una struttura economica, politica e militare creata artificialmente, che non si è sviluppata grazie al popolo, è destinata al fallimento dopo il ritiro degli aiuti stranieri.

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Oggi, la classe media teme per i suoi diritti politici, ed è comprensibile. Ma si tratta di una minoranza. L’enorme maggioranza degli afghani e delle afghane, poco importa l’etnia o la religione, chiede solo una cosa: la sicurezza e la fine di quarant’anni di conflitto.

E i talebani?

In vent’anni, tutta la popolazione afghana è cambiata, anche i talebani. Non potranno comportarsi come facevano nel 2001, poiché le persone che hanno assaggiato la libertà opporranno resistenza. Il cambiamento deve venire dal popolo afghano stesso. La costruzione di una nazione appartenente al popolo afghano e diretta dagli afghani prende tempo e il Paese dovrà prima passare attraverso un periodo turbolento.

Credo che ora si debba lasciare che la storia segua il suo corso. La democrazia non si crea in un giorno. In Afghanistan, il corso della storia è stato interrotto da continue occupazioni. E si è visto che non hanno portato nulla di positivo.

Pensa che si possa dare fiducia ai talebani quando dicono che non limiteranno le libertà e non puniranno nessuno di coloro che hanno collaborato con le forze occidentali?

Difficile rispondere al momento. Bisogna ben differenziare tra ciò che dicono i leader e quello che succede sul terreno, nelle campagne. I talebani non sono organizzati come un vero esercito. Non si tratta di un sistema istituzionalizzato, strutturato. Quindi non ci si può aspettare immediatamente coerenza tra le parole e i fatti.

In ogni caso, i talebani hanno bisogno di essere riconosciuti dalla comunità internazionale, perché il Paese non è economicamente indipendente. Dovranno rispettare delle condizioni.

Anche loro sono traumatizzati e affaticati dagli anni di guerra. Quando ero a Kabul, ho realizzato quanto fosse importante capire il loro punto di vista. Nelle campagne, i combattenti non fanno altro che difendere il proprio Paese contro l’invasore. Per loro, è una causa sacra. Dobbiamo analizzare e contestualizzare il loro punto di vista per capire le cause profonde del conflitto, anziché etichettare i belligeranti come buoni o cattivi. Non li difendo, dico solo che i talebani non sono solo i cattivi, bisogna saper guardare al di là delle apparenze. I motivi di risentimento sono reali dalle due parti.

*Il nome dell’intervistata è stato anonimizzato su sua richiesta il 23 gennaio 2024. 

Zeno Zoccatelli

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