Il destino condiviso delle Alpi
La regione alpina e il suo futuro sono state al centro del Congresso del Collegamento svizzero in Italia, tenutosi sabato a Trento.
Uno dei monumenti simbolo di Trento porta la firma di un ticinese. Nel 1212, il progetto di ricostruzione della cattedrale di San Vigilio fu infatti affidato a Adamo di Arogno, uno dei tanti maestri comacini che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’architettura di molte città italiane e anche europee.
Per certi versi quella di Adamo di Arogno è solo un’ennesima testimonianza di come tutte queste vallate alpine, malgrado siano tagliate dai confini nazionali e separate da una geografia impervia e da lingue diverse, abbiano sempre avuto un percorso e un destino condiviso, fatto di scambi economici e culturali, migrazioni e tradizioni spesso comuni.
Ed è proprio questo percorso condiviso che il Collegamento svizzero in ItaliaCollegamento esterno ha scelto di porre al centro del suo congresso annuale, organizzato sabato nel capoluogo della regione Trentino-Alto Adige.
Alla fine del 2022 oltre 800’000 persone con la cittadinanza svizzera vivevano all’estero.
In Italia la comunità elvetica conta 51’200 persone.
L’Italia è il quarto Paese nel mondo che accoglie più cittadini e cittadine svizzeri, dopo Francia (206’400), Germania (98’100) e Stati Uniti (82’600).
Un tema che travalica le frontiere e che, come ha sottolineato la console generale di Svizzera a Milano Sabrina Dallafior, testimonia della volontà dell’associazione che rappresenta gli svizzeri e le svizzere in Italia di gettare ponti tra i due Paesi.
Seppur con tutti i distingui del caso – la Valle dell’Adige non è il Vallese o l’Oberland bernese – ci sono problemi che accomunano tutta la regione alpina: spopolamento di certe aree e forte urbanizzazione in alcuni fondivalle, riscaldamento climatico e scomparsa dei ghiacciai, perdita di determinati ‘savoir-faire’…
“Un sapere antichissimo che sta traballando”
“In Trentino in passato c’erano circa 600 alpeggi che facevano formaggio, oggi ne sono rimasti un centinaio”, ha illustrato l’agronomo Francesco Gubert. “Molte malghe vengono abbandonate, ci sono aziende che spariscono, meno animali e, a causa del cambiamento climatico, laddove si faceva fieno oggi a volte si coltiva la vite”.
Il rischio – ha proseguito Gubert – è di ritrovarsi presto o tardi di fronte a montagne completamente all’abbandono, con una vita economica, sociale e culturale che si concentra solo nei fondivalle. Un discorso che si potrebbe allargare a molte aree alpine tra Italia, Svizzera, Francia e Austria.
“Vi è un sapere antichissimo che oggi sta traballando”, ha riassunto l’agronomo. Non è però un destino ineluttabile. Il mestiere di “cercatore d’erba” sta tornando in voga tra le giovani generazioni. Lo stesso Gubert, classe 1984, ha gestito per alcuni anni un alpeggio nel Trentino, dopo aver imparato tutti i segreti della produzione di formaggio nell’Oberland bernese.
“Le cose cambiano anche in bene. Vi è una crescente consapevolezza che abbiamo bisogno di prodotti buoni, con un approccio produttivo etico”. Gli alpigiani e le alpigiane di oggi – a cui Gubert ha dedicato un libro intitolato proprio “Cercatori d’erbaCollegamento esterno” – non perpetuano semplicemente questo sapere antichissimo, ma danno spesso prova di spirito innovativo. “Devono interpretare in un’ottica di mercato quella che prima era più che altro un’agricoltura di sussistenza”, riassume Francesco Gubert.
L’ombra del riscaldamento climatico
Su questa agricoltura di montagna che cerca di innovarsi, plana però la lunga ombra del riscaldamento climatico, più accentuato nelle Alpi che in altre regioni del mondo.
Altri sviluppi
Perché lo scioglimento dei ghiacciai riguarda ognuno di noi
Le risorse idriche rischiano di diminuire drasticamente. Se n’è già avuto un assaggio l’anno scorso, quando a causa della mancanza d’acqua e di conseguenza di una quantità sufficiente di foraggio molti allevatori e allevatrici in diverse regioni delle Alpi hanno dovuto accorciare la permanenza sugli alpeggi delle loro mandrie.
In alcune zone l’acqua di fusione dei ghiacciai ha potuto mitigare almeno un po’ la siccità. Ma ciò non durerà. “Verso il 2070 in Trentino non ci saranno più ghiacciai”, ha osservato Christian Casarotto, glaciologo del Museo delle scienze (Muse) di Trento. In Svizzera, dove vi sono montagne più alte, lo stesso scenario dovrebbe verificarsi verso la fine del secolo.
Pur rappresentando una proporzione di gran lunga inferiore all’1% di tutto il ghiaccio del pianeta, i ghiacciai alpini svolgono appunto questa funzione primordiale: sono una riserva d’acqua fondamentale per l’ecosistema della regione. “Tutti i ghiacciai italiani ricoprono una superficie quasi identica a quella del Lago di Garda”, ha riassunto Casarotto.
Un lago di ghiaccio che verrà a mancare, con tutte le conseguenze a cascata sull’agricoltura di montagna, sui bacini idroelettrici o anche più semplicemente sui rifugi alpini, che si ritroveranno a secco. La regione alpina si trova di fronte a un cambiamento epocale, che potrà essere superato solo unendo le forze e condividendo le esperienze. Un destino condiviso, insomma. Ma è sempre stato così.
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