“Il mondo intero deve costringere Israele e la Palestina a fare la pace”
Sono 81 le persone di nazionalità svizzera a vivere in Cisgiordania. Rami Daqqa, cittadino svizzero-palestinese di 39 anni, parla di una vita piena di sfide, che sono ulteriormente aumentate dopo lo scoppio della guerra.
Rami Daqqa è nato in Cisgiordania ed è arrivato in Svizzera all’età di 20 anni. Ha conseguito un master e ha lavorato nella Confederazione prima di tornare nel suo Paese per ragioni professionali alla fine del 2016. Dal 2017 vive con la moglie e i due figli a Ramallah, dove lavora presso una missione diplomatica di un Paese europeo.
SWI swissinfo.ch: Rami Daqqa, come sta?
Rami Daqqa: Abbastanza bene. I palestinesi qui dicono spesso che stanno bene, anche quando in realtà non è così. Ma sono abituati a confrontare il male con il peggio. Se oggi chiedete a qualcuno a Ramallah se le cose vanno bene, vi risponderà di sì. Perché qui stiamo molto meglio della popolazione della Striscia di Gaza. Ma non possiamo certo paragonare la nostra vita con una vita “normale”.
Qual è la situazione a Ramallah in questo momento?
In tutta la Cisgiordania e qui nella città di Ramallah la situazione è molto peggiorata dallo scoppio della guerra il 7 ottobre. Certo, già prima non era facile, ma solitamente Ramallah è una città vivace. Ora è vuota come Berna di domenica. La gente non può più muoversi liberamente. Viaggiare in un’altra città palestinese è un’impresa rischiosa. Inoltre, molte scuole sono chiuse o sono passate all’insegnamento online per evitare che i giovani debbano spostarsi.
Cosa è cambiato per lei e in generale dallo scoppio della guerra?
Le operazioni militari israeliane nelle città palestinesi sono aumentate, così come la violenza dei coloni. Per i palestinesi, camminare per le strade della Cisgiordania è diventato pericoloso. Come palestinese, si è alla mercé dell’esercito israeliano e della violenza dei coloni. Se ci si difende o si difendono i propri diritti, si viene arrestati. L’ho sperimentato di persona. L’unica cosa che ci rimane è fuggire e accettare che non possiamo cambiare nulla.
Vivo con la mia famiglia in un quartiere sicuro. Anche il mio ufficio si trova in un’area teoricamente sicura, dove si trova la maggior parte delle missioni diplomatiche. Di solito in quella zona non ci sono operazioni militari. Ma la settimana scorsa non ho potuto raggiungere l’ufficio perché la strada era chiusa. Ci sono state vittime. Questa non è un’eccezione al momento. Qui lo vediamo tutti i giorni, ma l’attenzione mediatica e politica non è rivolta alla Cisgiordania.
Ha già pensato di tornare in Svizzera?
A essere onesto, sì. Al momento seguiamo l’evolversi della situazione. In Cisgiordania non si possono fare progetti. Li facciamo comunque, ma sappiamo che possono cambiare da un giorno all’altro. Per esempio, ho promesso a mio figlio che quest’anno saremmo andati in Svizzera per Natale. Ora non so se sarà possibile.
I miei figli hanno cinque anni e mezzo e un anno e mezzo. Il più grande si sta lentamente rendendo conto di essere svizzero e palestinese. Andiamo spesso in Svizzera e ha già iniziato a confrontare la vita qui a Ramallah con quella in Svizzera. Non voglio che i miei figli crescano nell’odio tra palestinesi e israeliani.
Il passaporto elvetico è in un qualche modo di aiuto nella situazione attuale?
No. Il fatto di essere un palestinese con due passaporti non ha alcun influsso. Per l’occupazione israeliana siamo palestinesi. Anche se si possiede la doppia cittadinanza, si può usare solo un valico di frontiera verso la Giordania e non si può viaggiare passando per l’aeroporto israeliano. Io sono un’eccezione, ma solo perché lavoro presso una missione diplomatica.
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Come è cambiato il Suo lavoro nelle ultime settimane?
Al momento siamo in uno stato di emergenza. Cerchiamo di sostenere la popolazione della Striscia di Gaza e rispondiamo a molte richieste di informazioni da parte di persone all’estero preoccupate per i loro familiari. Dobbiamo rianalizzare la situazione ogni ora e ci aspettiamo un’ulteriore escalation. Ci stiamo preparando a tutti gli scenari. L’attenzione è rivolta alla pianificazione della crisi.
Tutti i miei dipendenti lavorano da casa. Anche l’ambasciatore non può più venire così facilmente a Ramallah. Per questo motivo ho assunto il servizio di guardia e sono l’unico ad andare in ufficio.
Quali media segue per tenersi aggiornato sugli ultimi sviluppi?
Leggo molti media svizzeri e guardo anche la televisione svizzera. Seguo anche le notizie dagli Stati Uniti e dall’Europa. Al momento, qui in Cisgiordania tutto va male a livello mediatico. I palestinesi ritengono che i media israeliani siano di parte.
Secondo me, la copertura mediatica è al 70% da parte israeliana e al 30% da parte palestinese. Ci sono alcuni media che mostrano i palestinesi solo come terroristi. È un’immagine completamente falsa.
Qual è la sua opinione su Hamas?
Hamas è il risultato di tutti i conflitti degli ultimi decenni. La domanda se noi palestinesi vediamo Hamas come un’organizzazione statale palestinese, o piuttosto come un’organizzazione terroristica non cambia molto. Non serve a nulla. Nella Striscia di Gaza è l’autorità de facto. Hamas è semplicemente lì. La popolazione non ha voce in capitolo, né in Cisgiordania né a Gaza. Hamas ha deciso l’attacco del 7 ottobre, non il popolo. La domanda se il popolo condanni o meno l’attacco viene posta a tutti. Tutti i palestinesi sanno che un’azione del genere non è mai giusta. Nessuno vuole la guerra.
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Quali misure politiche dovrebbero adottare la Svizzera e l’Europa?
Bisogna porre fine ai doppi standard e all’ipocrisia politica: il mondo intero deve costringere Israele e i palestinesi a fare la pace. È l’unica soluzione. Purtroppo, da entrambe le parti, al momento nessuno vuole avviare negoziati di pace.
Sono convinto che i due popoli possano vivere e lavorare insieme, in uno o in due Stati. È possibile.
Abbiamo solo bisogno di politici migliori, che abbiano questa visione. Non tutti erano d’accordo con gli Accordi di Oslo, ma Yitzhak Rabin e Yasser Arafat hanno avuto il coraggio di lavorare insieme e di provare a trovare una soluzione comune.
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Traduzione di Luigi Jorio
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