Il volto controverso dei rifugiati della guerra
Alla fine della seconda guerra mondiale, alcuni nazisti tedeschi, fascisti italiani e sostenitori del regime francese di Vichy trovarono protezione in Svizzera. Un esperto ritorna sulla storia. Intervista.
Luc van Dongen, professore di storia all’Università di Losanna, apre il vaso di Pandora del periodo che si estende dal 1943 al 1954. Il suo intento è quello di puntare i riflettori sulla politica d’asilo svizzera ripercorrendo le tracce di numerosi rifugiati politici ed economici altamente controversi.
Nel suo recente libro “Un purgatoire très discret” (Un purgatorio molto discreto), lo storico propone l’esito di dieci anni di ricerca attraverso gli archivi di Berna, Berlino, Londra, Parigi e Washington.
Tra i rifugiati molto noti che compaiono nel libro, spiccano diversi nomi, come quelli di: Edda Ciano, la figlia di Benito Mussolini; Dino Alfieri, soprannominato il “Goebbels italiano”; il capo della Gestapo Rudolf Deiss; l’ufficiale delle SS Franz Sommer. Ad essi si aggiungono anche numerosi esponenti del regime di Vichy, ministri, industriali, intellettuali, scienziati e collaborazionisti.
Finora molto è stato scritto sul controverso comportamento della Svizzera per aver negato l’entrata ad alcune migliaia di rifugiati, ma si conosce ancora poco dei casi sensibili di quei rifugiati che furono ufficialmente – ma segretamente – ammessi nel paese.
swissinfo: Chi erano questi rifugiati molto controversi a cui è stata accordata protezione in Svizzera?
Luc van Dongen: I tedeschi (100) erano prevalentemente rifugiati economici ( specialisti), ma si contano anche personalità appartenenti alla Gestapo e alle SS che non ebbero un ruolo di primo piano. Molti fuggirono la Germania tra il 1944 e il 1946, quando le forze Alleate procedettero ad arresti automatici.
Per quanto riguarda gli italiani (100), il gruppo più grande era composto di industriali in provenienza del nord Italia come Volpi, Cini, Benni, Marinotti; personalità ricche ed influenti che vantavano legami molto stretti con l’industria svizzera. Tra i rifugiati anche esponenti fascisti, che nel 1943 assunsero posizioni contrarie a Mussolini, e un buon numero di neofascisti membri delle organizzazioni repressive di paramilitari.
Tra i francesi (300) spiccano i sostenitori del maresciallo Pétain, ufficiali del regime di Vichy, collaborazionisti e miliziani. Figurano anche i nomi di donne che ebbero delle relazioni con i tedeschi, intellettuali e giornalisti. I tre quarti dei rifugiati francesi furono interessati dalla purga politica nella Francia del 1945, guardata malissimo dalle autorità elvetiche. Per queste persone venire in Svizzera non rappresentò nessun problema.
swissinfo: Questi rifugiati erano conosciuti dall’opinione pubblica svizzera?
L.v.D.: No. La stragrande maggioranza di essi (il 95%) non era solo sconosciuta al popolo svizzero, ma anche al Parlamento. Alcuni casi vennero alla luce destando l’interesse degli organi di informazione. La rivelazione della loro presenza, tuttavia, era strettamente legata ai diretti interessanti. Per Edda Ciano, la figlia di Mussolini, ha giocato un ruolo la notorietà. In altri casi ad attirare l’attenzione fu il tenore di vita e una vita sociale molto attiva, come per i fascisti aristocratici italiani e i potenti industriali, così come per gli ufficiali di Vichy.
I media non erano disinteressati. Ma nessuno aveva voglia di parlare di loro, a causa della palese e pubblica ostilità nei loro confronti.
swissinfo: Qual era la posizione ufficiale del governo svizzero nei loro confronti?
L.v.D.: Fino al 1948 le richieste d’asilo politicamente sensibili erano seguite dalla procura sia attraverso la via consolare, direttamente alla frontiera o dopo che erano giunti segretamente in Svizzera. La polizia degli stranieri, la procura pubblica e i cantoni affrontavano caso per caso su basi amministrative.
La maggior parte delle richieste era centralizzata nell’ufficio del procuratore, ma la lista dei nominativi non è stata conservata. I cantoni e i responsabili della polizia vennero a sapere unicamente dei casi sotto la loro responsabilità, di quelli in altre regioni nessun parola. Ecco perché le conoscenze attorno ai rifugiati erano molto frammentarie. Globalmente al massimo una ventina di funzionari federali e cantonali erano a conoscenza di cinquecento casi.
Cercarono di evitare ogni pubblicità e di parlare pubblicamente il meno possibile di rifugiati, anche allo scopo di proteggere le loro famiglie. Infatti la categoria dei rifugiati in questione rappresentava una questione estremamente delicata. Parlarne avrebbe comportato molto rischi e avrebbe sollevato molte controversie tanto in Svizzera quanto all’estero.
Se un caso veniva alla luce, ci si affrettava a parlare di incidente, se qualcuno veniva riconosciuto da un giornalista e da un cittadino, generalmente veniva subito espulso.
swissinfo: In che misura la Svizzera attrasse attivamente certi “desiderabili” rifugiati fascisti?
L.v.D.: Questo atteggiamento era legato alla cosiddetta fuga di cervelli; un aspetto finora davvero poco conosciuto. Le autorità svizzere cominciarono ad interessarsi a questo problema e quando si resero conto che gli Alleati, in particolare gli americani, non avevano scrupoli, a partire dal 1947-1948 la politica svizzera cambiò. Ma cambiò discretamente attraverso misure che gli Alleati non percepirono.
Il rapporto Bergier fece luce unicamente su alcuni casi. Sono riuscito a dimostrare che non si trattò di una vicenda da poco. Attraverso le mie ricerche ho identificato circa cento specialisti (tecnici, ingegneri, scienziati), giunti in Svizzera e impiegati dalla Brown Boveri, Bührle, Dubied e l’istituto federale di tecnologia. Alcuni di questi specialisti sono personalità importanti.
swissinfo: Quale fu, allora, la reazione degli Alleati? Fecero pressione sulla Svizzera?
L.v.D.: Dal 1943 gli Alleati lanciarono un appello alle nazioni neutrali affinché non accogliessero sul loro territorio criminali di guerra e affinché esercitassero un severo controllo sui treni. Ma c’è un altro aspetto politico rilevante che va evidenziato, specialmente nei confronti degli americani.
Questi ultimi volevano ricavare un beneficio dai casi economicamente e politicamente interessanti che giunsero in Svizzera. Così esercitarono delle pressioni affinché alcune di queste persone venissero espulse.
swissinfo: Che cosa successe a questa categoria di rifugiati dopo la guerra?
L.v.D.: Generalmente questi rifugiati fecero ritorno nei loro rispettivi paesi d’origine, e non sempre su base volontaria. Ce ne furono però alcuni – quelli più radicali – che non vollero fare ritorno in patria e si diressero verso l’America Latina.
Una stretta minoranza, circa una cinquantina di persone, rimase in Svizzera ancora per pochi anni. Per la maggioranza dei francesi la permanenza sul territorio svizzero si situò fino agli anni Cinquanta.
Intervista swissinfo, Simon Bradley
(traduzione e adattamento dall’inglese Françoise Gehring)
La resa della Germania nazista pose fine a sei anni di orrori in Europa e costituì un enorme sollievo anche per la Svizzera neutrale. Il paese trascorse il periodo bellico evitando di contrapporsi ai nazisti e vivendo nella costante paura di un’invasione.
Negli anni Novanta emersero scottanti rivelazioni sul comportamento delle banche svizzere durante la Seconda guerra mondiale, specialmente riguardo ai fondi ebraici in giacenza.
Lo scandalo, partito dagli Stati Uniti, costrinse il governo svizzero a creare una commissione indipendente di esperti – presieduta dallo storico Jean-François Bergier – con il compito di fare luce sul passato della Svizzera.
Il rapporto finale della commissione, pubblicato nel 2002, infranse molti miti sulla storia del paese durante la guerra e portò ad una severa critica della politica che la Svizzera tenne in quegli anni bui.
La commissione evidenziò che governo e industria elvetici cooperarono con i nazisti. Inoltre, la Confederazione diede sì ospitalità a 300 mila profughi, ma alle frontiere respinse almeno 24’000 persone, in maggioranza ebree, in fuga dagli orrori della guerra.
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