Helvecia, un villaggio “svizzero” color caffé
Nel 1818, un anno prima dell’arrivo dei primi friburghesi a Nova Friburgo, una manciata di svizzeri fondarono una colonia nel sud dello Stato di Bahia, in Brasile. Del loro passaggio sussiste solo un’ultima traccia, un toponimo: Helvecia. Misteriosamente, questo villaggio è oggi abitato esclusivamente da afro-brasiliani.
Chi soffre di presbiopia deve faticare per trovare Helvecia su una cartina stradale dello Stato di Bahia. Questa località è così piccola che è segnalata solo con caratteri minuscoli. Persa in mezzo ad un oceano di eucalipto, lontana dalle principali vie di comunicazione, Helvecia è conosciuta nella regione come “il villaggio dei neri”. Una visita è sufficiente per capirne la ragione. Nelle strade si incontrano solo persone con la pelle molto scura, discendenti degli schiavi africani.
Ma per quale scherzo della storia questo pezzo di Africa perso nel Nuovo Mondo è stato battezzato in modo tanto esotico? Gli stessi abitanti ne hanno sovente solo una vaga idea.
“Una volta, c’era un grande proprietario terriero la cui moglie si chiamava Helvecia, racconta una giovane cameriera appoggiandosi al bancone del bar locale. Per amore ha dato il suo nome a queste terre”. Un cliente al tavolo interviene: “Non è vero! Helvecia è il nome di una città svizzera. Gli svizzeri e i tedeschi sono venuti qui per coltivare il caffè. È per questo che ci sono delle famiglie che si chiamano Krull, Metzker, Sutz, e Krygsman”.
Una storia dimenticata
Contrariamente a Nova Friburgo, la cui storia è molto conosciuta, il passato di Helvecia ha bisogno di essere rispolverato. “Il fondatore della colonia era un naturalista tedesco di nome Georg Wilhelm Freyreiss”, spiega Jean Albuquerque, un pensionato molto ferrato in storia. A casa sua (fatto molto raro in Brasile), l’immancabile televisione ha ceduto il posto ai libri, che ricoprono le pareti da cima a fondo: “Per amicizia, il re del portogallo Giovanni VI ha regalato dei terreni nella regione d’Helvecia a Freyreiss. Quest’ultimo ha poi invitato degli svizzeri e dei tedeschi che hanno fondato, nel 1818, quella che si chiamava la Colonia Leopoldina”.
Il racconto trova riscontro in un documento del 1824, nel quale si può leggere che i fondatori della colonia furono, assieme a Freyreiss e ad un certo Von dem Busche, tre coloni dal cognome decisamente elvetico: Abraham Langhans, Louis Langhans e David Pache.
Vennero presto raggiunti da dei Beguin, Borel, Huguenin, Jaccard e Montandon, solo per citarne alcuni. Nomi dimenticati dagli odierni abitanti di Helvecia e che nessuno, qui, sembra portare più.
Tuttavia un altro svizzero, Johann Martin Flach, qui conosciuto come Joao Martinho Flach, non è scomparso dalla memoria. E per un motivo ben preciso. Questo sciaffusano, che aveva molte conoscenze alla corte reale brasiliana, gestiva da Rio una delle più estese coltivazioni della Colonia Leopoldina, battezzata Helvetia. Il nome è poi stato tramandato al villaggio che vi è sorto.
Il mistero del toponimo è risolto, resta però da capire perché quasi tutti gli abitanti sembrano provenire dritti dal continente africano.
Coloni divenuti schiavisti
I ricercatori brasiliani non si interessano tanto a Helvecia per le sue origini svizzere, quanto per l’instaurazione progressiva di un’economia basata sulla tratta degli schiavi neri. Sembra che dopo la morte di Freyreiss, nel 1825, alcuni coloni abbiano cominciato a servirsi di loro anche se, in linea di principio, lo statuto di colonia ufficialmente proibiva lo schiavismo. “Penso che le terre fossero così vaste che un solo nucleo familiare non sarebbe riuscito a sfruttarle interamente”, ipotizza Albuquerque.
Con il passare degli anni, il numero di schiavi divenne considerevole. Joao Martinho Flach ne possedeva sulla sua proprietà 108. Nella colonia, i fratelli Ernesto e Federico Krull ne avevano ancora di più. Alla fine degli anni 1850, Carlos Augusto Toelsner, medico della Colonia Leopoldina, scrisse che c’erano 200 bianchi e 2’000 schiavi, distribuiti in 40 coltivazioni. Un rapporto di 1 a 10! Questo spiega, in parte, il colore degli attuali abitanti di Helvecia.
E non ci si stupisce ormai più dei cognomi tedeschi che vi si trovano. Era infatti tradizione, nel XIX secolo, ribattezzare gli schiavi con il nome del padrone.
Non si può tuttavia escludere una mescolanza. Maria Conceiçao Metzker, una gioviale settantenne, ne è l’esempio perfetto. Dopo aver frugato in ogni angolo della sua stanza cercando, senza successo, il suo certificato di nascita, alla fine esclama: “Non lo trovo, ma vi posso assicurare che ci sono molti tedeschi nella mia famiglia. È per questo che alcuni diventano tutti rossi quando stanno al sole. Io invece mi abbronzo, perché mia nonna era un’indigena catturata nella foresta e ho anche una discendenza africana. Insomma, siamo molto mescolati in famiglia”. Scoppia poi a ridere gettando un occhiata a suo marito, un Krygsman originario dell’Olanda.
Ma dove sono gli svizzeri?
I padri fondatori e i loro discendenti non sembrano avere radici nella regione poiché la colonia, dopo 7 decenni, è finita per crollare sotto gli effetti congiunti dell’impoverimento del terreno e dell’abolizione della schiavitù nel 1888.
“Molto verosimilmente”, ritiene jean Albuquerque, i proprietari delle piantagioni di caffè, alcuni dei quali erano ancora in contatto con la madrepatria, sono ritornati in Europa. Gli schiavi sono rimasti mentre Helvecia veniva poco a poco dimenticata”.
Oggi, la maggior parte degli abitanti di Helvecia non s’interessa molto alle origini svizzere della comunità. “È normale”, spiega Reginaldo, istruttore di capoeira del villaggio, “i miei antenati erano africani, il loro sangue scorre nelle mie vene. Oggi, difendo questa cultura. La capoeira e le danze tradizionali sono un’eredità del popolo nero. Non abbiamo mantenuto nessun legame affettivo con i vecchi padroni”.
Dal canto suo, Jean Albuquerque si rammarica un po’ di questo atteggiamento: “È un peccato ignorare tutto quello che gli europei hanno portato. Senza i coloni, gli afro-brasiliani non sarebbero qui. È la storia. Bisogna conoscerla senza rinnegarla”.
È una storia fatta di aneddoti drammatici, alcuni dei quali circolano ancora nel villaggio. “Una signora anziana mi ha raccontato di un padrone che ha fatto gettare il neonato di una schiava nel fuoco perché, dovendo allattarlo, è arrivata in ritardo al lavoro”, spiega Bruno Duque, uno studente brasiliano che sta scrivendo il suo lavoro di diploma a Helvecia. Difficile sapere se un tale racconto è stato trasmesso oralmente di generazione in generazione o se è stato riesumato recentemente da qualche storico. Comunque, esistono molte prove scritte (in particolare dei documenti processuali) che testimoniano l’estrema durezza della vita in questa enclave schiavista.
Helvecia, oggi
Per molto tempo isolata in mezzo a immense piantagioni di eucalipto, Helvecia da tre anni a questa parte è collegata agli assi di collegamento principali grazie a una strada asfaltata. Il villaggio, che conta poco più di un migliaio di abitanti, gode oggi di uno statuto speciale, quello di comunità “quilombola”, un riconoscimento ufficiale del suo passato e della sua specificità. “Fino a poco tempo fa, in Brasile, i neri dovevano rinunciare a tutto ciò che costituiva la loro identità”, spiega Benedito dos Santos, insegnante di storia a Helvecia. “Le nostre tradizioni sono state vietate, i nostri diritti violati. Il riconoscimento come quilombo, una comunità di discendenti di schiavi, ci restituisce l’orgoglio perduto.”
Questo titolo conferisce anche delle risorse finanziarie per il miglioramento delle strutture educative, sanitarie e stradali. “Abbiamo 500 anni di ritardo”, sospira Dos Santos.
Traduzione dal francese, Zeno Zoccatelli
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