In Ticino la paura della mafia costringe la procura federale ad agire
Dopo una serie di fallimenti, il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha mostrato una certa reticenza ad avviare indagini sulla criminalità organizzata in Svizzera. In Ticino, degli imprenditori suonano il campanello d'allarme, denunciando l'infiltrazione dei clan criminali nell'economia locale. Il pericolo non si limita però al Cantone sudalpino e la strategia di lotta va rivista.
“Che la mafia, nelle sue varie forme, sia presente anche in Svizzera è innegabile. Ma oggi non è più sufficiente constatare l’esistenza del fenomeno. Non è più sufficiente analizzare determinate situazioni. È necessario anche combattere, cioè trasformare gli elementi dell’indagine in atti d’accusa”.
Con queste parole il nuovo procuratore generale della Confederazione, Stefan Blättler, ha aperto una tavola rotonda sul tema delle infiltrazioni criminali tenutasi a Mendrisio, in Ticino, il 19 maggio 2022. L’incontro è stato organizzato dalla sezione ticinese della Società svizzera degli impresari costruttori (SSIC-Ticino), un’organizzazione ombrello dei datori di lavoro del settore dell’edilizia e dell’ingegneria civile.
Gli imprenditori ticinesi hanno organizzato questa tavola rotonda perché hanno paura. Non tanto delle organizzazioni criminali in quanto tali, quanto piuttosto della temibile concorrenza delle imprese infiltrate dalle organizzazioni mafiose. Questo rischio non è limitato al Ticino. Abbiamo quindi cercato di contestualizzare questo problema.
La presenza della criminalità organizzata italiana in Svizzera è cambiata negli ultimi anni, spiega l’avvocata Rosa Cappa, dello studio legale Gaggini & Partners di Lugano. “Le organizzazioni criminali non si limitano più ad avere conti bancari nella Confederazione, ma riciclano e investono i loro capitali illeciti in attività economiche come l’edilizia o la ristorazione, generando una concorrenza sleale nei confronti delle imprese locali”.
Per anni, dal 2003 al 2015, Rosa Cappa ha lavorato presso il Ministero pubblico della Confederazione, dove si è occupata di indagini sulla criminalità organizzata italiana. Recentemente ha deciso di esprimere pubblicamente la sua preoccupazione per sensibilizzare l’opinione pubblica.
Negli ultimi anni, la procura federale non è stata molto reattiva nelle sue indagini e ha agito quasi esclusivamente sulla base di rogatorie italiane”, spiega. Durante l’era Michael Lauber (ex procuratore generale), il tema delle infiltrazioni mafiose nell’economia svizzera non è mai stato una priorità, come dimostra il fatto che i responsabili di questo dossier in seno all’MPC erano basati a Berna, lontani dalla realtà che avrebbero dovuto monitorare”.
Il successore di Lauber, Stefan Blättler, ha espresso l’intenzione di mettere questa tematica in cima alla sua agenda. Il suo primo viaggio all’estero ha avuto per destinazione l’Italia, proprio per coordinare questo tipo di indagini con i colleghi transalpini.
Secondo le nostre informazioni, a Berna è stato nominato un nuovo magistrato che affiancherà la squadra formata finora dal procuratore Sergio Mastroianni e dal sostituto procuratore Raffaele Caccese.
La Svizzera, un rifugio per i mafiosi?
Il problema non si limita però al Ticino. Al contrario. I dati pubblicati dalla Polizia federale (Fedpol) mostrano la presenza di organizzazioni criminali italiane in 18 Cantoni svizzeri. E secondo Sergio Mastroianni, la prima lingua della ‘ndrangheta in Svizzera è ora lo svizzero tedesco.
La Polizia federale ha dedicato un’ampia parte del suo rapporto 2021 alla presenza di queste organizzazioni nella Confederazione. Questo perché l’argomento è tornato più volte alla ribalta, alla luce delle numerose inchieste che hanno interessato la Svizzera tra il 2020 e il 2021.
Questi eventi non solo hanno confermato la presenza di clan mafiosi in diversi Cantoni e in settori economici come la ristorazione, l’edilizia e l’immobiliare, ma hanno anche dimostrato che la Svizzera è diventata una sorta di rifugio per i mafiosi.
È quanto afferma Alessandra Dolci, capo dell’unità antimafia di Milano. Racconta che diversi imputati le hanno detto di sentirsi più sicuri in Svizzera che in Italia. “Questo perché il diritto svizzero non ha un equivalente del nostro articolo 416bis”, spiega.
Questo articolo definisce il reato di associazione di tipo mafioso nel Codice penale italiano. In Svizzera, la “partecipazione” o il “sostegno a un’organizzazione criminale” sono effettivamente punibili ai sensi dell’articolo 260ter del Codice penale ma, sebbene sia stato recentemente rafforzato, le misure preventive e repressive che consente non sono paragonabili a quelle italiane.
Poche incriminazioni
Negli ultimi anni il numero di rinvii a giudizio per questo tipo di reato (nell’ambito delle organizzazioni mafiose) è basso.
Il caso forse più importante esaminato del Tribunale penale federale (TPF) di Bellinzona è stato quello di Franco Longo. Soprannominato “il banchiere della ‘ndrangheta”, l’uomo si era stabilito in Ticino e aveva aperto diverse aziende attive nel settore delle costruzioni. Si era impegnato a riciclare il denaro dei temuti fratelli Martino, referenti lombardi del potente clan calabrese Libri-De Stefano-Tegano.
Per evitare l’estradizione in Italia, Franco Longo ha deciso di collaborare con gli inquirenti svizzeri, di ammettere i fatti e di essere giudicato dal TPF. Nel 2015, tuttavia, i giudici hanno respinto il procedimento semplificato concordato tra Longo e la procuratrice federale Dounia Rezzonico.
Due anni dopo, Franco Longo è tornato in tribunale con il suo coimputato Oliver Camponovo, ex politico e fiduciario ticinese del Partito liberale radicale. L’italiano è stato condannato a cinque anni e mezzo di carcere per partecipazione a un’organizzazione criminale e riciclaggio di denaro. Il fiduciario è stato condannato a tre anni di carcere sospesi parzialmente per riciclaggio di denaro aggravato.
Riciclare, ma senza intenzionalità
Caso chiuso? Per nulla. Il Tribunale federale (TF), la più alta istanza giudiziaria svizzera, ha recentemente accolto il ricorso di Oliver Camponovo e rinviato il caso a Bellinzona per un nuovo processo, non per riciclaggio aggravato, ma per una semplice ““carente diligenza in operazioni finanziarie”.
Secondo i giudici del TF, i fondi in questione erano effettivamente di origine illecita, ma non c’erano prove che il fiduciario ne fosse a conoscenza. Era quindi impossibile stabilire l’intenzionalità.
Per Rosa Cappa, questa sentenza “dimostra le difficoltà di questo tipo di indagini e potrebbe purtroppo avere l’effetto di scoraggiare gli inquirenti”. L’ex procuratrice ricorda che “la sentenza del Tribunale federale ha confermato che il cliente del fiduciario, Franco Longo, apparteneva alla ‘ndrangheta e che operava in Ticino per conto dei clan”.
Un’altra vicenda che si è conclusa con una condanna riguarda un cittadino italiano residente nel Canton Berna, soprannominato “Cosimo lo svizzero”. Anche in questo caso, il dossier è stato contraddistinto da diverse andate e ritorno tra il Tribunale penale federale di Bellinzona e il Tribunale federale di Losanna.
Alla fine del 2021, la Corte d’Appello del TPF ha infine ridotto la sua pena, in particolare a causa della “violazione del principio di celerità”. In questa sentenza, i giudici di Bellinzona hanno ricordato che l’uomo aveva partecipato alle attività del ramo milanese della ‘ndrangheta tra il 2003 e il 2011.
Estradizione o processo?
Come dimostrano questi esempi, si tratta di casi complessi non solo dal punto di vista investigativo, ma anche giuridico. Per questo motivo, da tempo la Svizzera preferisce estradare i sospetti mafiosi in Italia.
È quello che è successo nel caso della cosca di Frauenfeld, la prima cellula di ‘ndrangheta riconosciuta in Svizzera, attiva in quella zona dagli anni ’70. Dopo l’arresto in Italia dei due presunti capi della cellula svizzera, Antonio Nesci e Raffaele Albanese, è stato diffuso un video dei loro incontri.
La Confederazione si è trovata di fronte a un dilemma: cosa fare con gli altri membri che vivevano nel Paese? Dal 2009, questi presunti mafiosi di Frauenfeld erano sotto inchiesta da parte dell’MPC. La procura svizzera temeva un altro fallimento dopo il caso Quatur, una precedente indagine sulla ‘ndrangheta interrotta a causa di errori investigativi e procedurali.
Berna ha quindi optato per la strategia meno rischiosa. Ha arrestato i sospetti a Frauenfeld e li ha estradati in Italia. L’unico problema è che gli imputati svizzeri sono stati assolti in appello in Italia, proprio perché non è stato possibile dimostrare che avevano agito come mafiosi in Svizzera.
“L’idea di rivolgersi all’Italia anche se il reato è commesso in Svizzera, come in questo caso, è sbagliata”, ci aveva detto all’epoca dell’assoluzione Antonio Nicaso, professore universitario in Canada, autore di decine di libri sulla ‘ndrangheta e considerato uno dei massimi esperti mondiali di questa potente organizzazione criminale. “È ora che la Confederazione inizi ad assumersi le proprie responsabilità e ad affrontare il problema. Perché se queste persone vengono in Svizzera, c’è un motivo”.
Una questione di competenza
“È essenziale che le indagini siano indirizzate verso le attività più sensibili, come le irregolarità nelle procedure di appalto pubblico, i reati di bancarotta e le violazioni delle norme sulla protezione dei lavoratori e sulla sicurezza sociale”, afferma l’ex procuratrice Rosa Cappa. Questi elementi possono rivelare la presenza di un’organizzazione criminale, ma le autorità giudiziarie non sempre fanno il collegamento.
Un possibile esempio è il cantiere di Alptransit. Dopo la denuncia di alcuni lavoratori e un’indagine della Radiotelevisione svizzera RSI, la Procura ticinese ha aperto un’inchiesta sull’azienda italiana GCF Generali Costruzioni Ferroviarie, attiva nell’installazione di materiale ferroviario.
Come parte di un consorzio con altre aziende, la società si era aggiudicata questo importante appalto pubblico con un’offerta inferiore del 30% rispetto alle altre ditte finaliste. Il cantiere è stato caratterizzato da abusi nei confronti dei lavoratori e da un buco di circa tre milioni di franchi nei contributi sociali.
Ma l’indagine della Procura ticinese è stata lacunosa, come aveva dimostrato un’altra inchiesta della RSI. L’MPC non aveva giurisdizione sul caso, anche se era legato a uno dei più grandi cantieri della Svizzera.
Ironia della sorte, la GCF è stata recentemente coinvolta in un’indagine in Italia, proprio perché avrebbe favorito i clan mafiosi nell’ambito di importanti appalti ferroviari.
Nel frattempo, la procura federale, teoricamente responsabile dei crimini transnazionali, è intasata da tutta una serie di reati minori. Ogni mese, deve occuparsi di decine di casi che riguardano denaro falso, incidenti di elicotteri, violenza contro i controllori dei treni e, più recentemente, violazioni della legge Covid-19. Questi reati rientrano nella giurisdizione federale ma, per la maggior parte, comportano pene molto basse. Forse bisognerebbe cambiare qualcosa anche in questo senso.
*Fondata dai giornalisti investigativi Marie Maurisse e François Pilet, Gotham CityLink esternoCollegamento esterno è una newsletter di vigilanza giudiziaria, specializzata in criminalità economica.
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