La storia di una comunità senza Stato
Cavaione è un paesino simile a tanti altri nell’arco alpino, eppure la sua storia ha qualcosa di unico. Infatti, fino a dopo la metà del 19esimo secolo gli abitanti di questo villaggio di montagna non avevano una nazionalità: non erano né svizzeri né italiani.
L’ultima volta ho raggiunto Cavaione in vespa. L’ho sentita arrancare mentre si lasciava dietro di sé metri di strada ripida e serpeggiante. Curva dopo curva ho guadagnato quota e dopo aver superato l’ultimo tratto e la galleria finale è apparso questo nido di case da cui si ha una veduta spettacolare sulla Valtellina e sulla catena dell’Adamello.
È un insediamento aggrappato alla montagna sul versante destro della Valposchiavo a pochi chilometri dal confine con l’Italia, nel cantone dei Grigioni. Le case disseminate a 1200-1500 metri danno vita a delle minuscole contrade.
I cavaionesi della diaspora
Oggi è quasi abbandonato. Soltanto una manciata di uomini e donne, già in là negli anni, ci vive ancora tutto l’anno. «Quella di Cavaione è una piccola comunità dispersa sul territorio nazionale. Ma almeno una volta all’anno, in occasione della festa del paese, le vite dei cavaionesi si intrecciano di nuovo», racconta con malcelata soddisfazione Secondo Balsarini, insegnante cresciuto in questo villaggio di montagna.
«Le case sono state ristrutturate e così d’estate le stradicciole del paese si animano di vita grazie al ritorno dei cavaionesi della diaspora. I giovani tengono molto alle loro radici e si impegnano affinché la storia di questo paesino di montagna non venga cancellata», ricorda ancora Balsarini.
Svizzeri o italiani?
L’origine di questo ameno villaggio di montagna non è certa. Sicuro è che i primi cavaionesi sono stati dei valtellinesi di La Rasiga, frazione di Tirano in Valtellina, i quali volgendo lo sguardo a settentrione avevano notato sopra Campascio, paese sul territorio del comune di Brusio, questa sponda particolarmente solatia anche d’inverno.
Inizia così la storia di una comunità alla ricerca di una nazionalità. Infatti, le famiglie valtellinesi stabilitesi su questo pendio impervio non sapevano più a che Stato appartenessero dopo che nel XV secolo, con la conquista della Valtellina da parte dei Grigioni, i confini vennero ridisegnati. Rimanevano valtellinesi oppure grigionesi?
Questa singolare condizione si protrasse per secoli fino a quando nel 1874 non intervenne dapprima il governo retico e poi il parlamento svizzero che ordinò, assumendosi anche parte dei costi, la naturalizzazione in blocco dei cavaionesi. «Nella seconda metà del XIX secolo lo Stato nazionale si costituisce creando una propria burocrazia atta ad un controllo sempre più capillare della propria gente e del proprio territorio», afferma lo storico e direttore dei Documenti Diplomatici Svizzeri Sacha Zala.
La naturalizzazione di massa
«Se fino alla metà del XIX secolo a Cavaione era possibile nascere, sposarsi e morire senza essere registrati da nessuna parte – spiega Zala – lo sviluppo dell’apparato burocratico dello Stato pone questa popolazione di fronte a un problema enorme: non sanno a che Stato rivolgersi per ottenere i documenti necessari».
E questo grattacapo piombò sulle autorità del comune di Brusio, che però non avevano nessuna intenzione di assumersi l’onere di badare anche al centinaio di anime dimenticate di Cavaione: temevano, infatti, di veder dilapidate le proprie casse. «Le assicurazioni sociali si svilupperanno soltanto nel XX secolo. Prima erano dunque le famiglie ed i singoli comuni che dovevano impegnarsi affinché la propria gente non morisse di fame o di stenti. Inoltre, si sapeva che i cavaionesi erano poveri in canna: il sussidio federale per naturalizzarli fu decisivo», aggiunge Zala.
Così, il 12 luglio 1875, ogni capofamiglia – erano circa una ventina le famiglie – ricevette un certificato di cittadinanza firmato dal sindaco e dal cancelliere del comune di Brusio. Fu l’ultima naturalizzazione di massa in Svizzera.
Una comunità autosufficiente
A quegli anni risale anche la costruzione della scuola, alla quale tutti i cavaionesi parteciparono, chi fornendo il terreno, chi i sassi o la calce, chi un contributo finanziario. Formò i giovani per un centinaio d’anni, fino a quando nel 1971 venne definitivamente chiusa. Prima di allora, l’educazione era in mano alle singole famiglie o forse al parroco che saliva una volta la settimana per la messa.
Scendere al piano significava intraprendere un difficile e lungo viaggio per sentieri e mulattiere. Quella di Cavaione era così una piccola comunità quasi completamente autosufficiente. Nel piccolo villaggio di montagna c’erano un mulino per la macinatura dei cereali, un forno comunitario per la cottura del pane, una fornace per la preparazione della calce, una segheria a mano, un consorzio per l’allevamento bovini con il toro da monta, l’alambicco per la distillazione dell’acquavite della radice della genziana.
Senza cimitero e macellaio
«I cavaionesi non avevano però un cimitero, anche se a più riprese avevano richiesto di poter seppellire i loro morti lassù», racconta ancora Secondo Balsarini.
«Dovevano portare a Brusio i loro cari passati a miglior vita. I morti venivano caricati su una barella e trasportati a spalla fino al piano. Lungo il percorso c’erano dei punti di sosta dove su massi sufficientemente grandi veniva appoggiata la barella con il defunto».
Anche gli animali percorrevano l’ultimo viaggio per raggiungere la macelleria legati e caricati su portantine di fortuna: scale a pioli, assi oppure su grandi slitte. «Era un trasporto tragico di cui rammento soprattutto il verso acuto e irritante del maiale terrorizzato», ricorda Balsarini.
L’inizio della fine
La strada carrabile giunse soltanto dopo la metà del 20esimo secolo. La sua costruzione si protrasse per sette anni e permise finalmente ai cavaionesi di raggiungere il piano seduti comodamente su un carretto trainato da una giovenca, un mulo o un cavallo o su trabiccoli a motore.
L’avvento della strada significò però per il paese arroccato sulla montagna anche l’inizio della fine. I giovani, conosciuta la comodità della vita in valle, non fecero più ritorno e così, piano piano Cavaione si è spopolato. Uno dopo l’altro, chiusero la scuola, la posta, il negozio e la bettola.
Oggi, un pugno di uomini ci vive tutto l’anno. Balsarini non vuole però sentire parlare di Cavaione in fin di vita. «Un paese non può morire. Muoiono le persone, ma il paese continua a vivere».
Luca Beti, Brusio, swissinfo.ch
Nel Medioevo la cappella della Madonna di Tirano era proprietaria dei pascoli primaverili di Cavaione.
Agli inizi del XVI secolo i confini sono stati modificati a vantaggio di Brusio.
Fino al XVII-XVIII secolo il villaggio è rimasto unicamente un insediamento estivo.
Nel 1777 è stata eretta la cappella di Santa Croce. Restò alla parrocchia di Tirano fino al XIX secolo, per passare poi a Brusio.
Il 1° dicembre 1874 i cavaionesi hanno ottenuto la nazionalità svizzera.
Il 12 luglio 1875 i capifamiglia hanno ricevuto un certificato di cittadinanza svizzera da parte del comune di Brusio.
Nel 1896 è stato aperto l’ufficio postale.
Nel 1933 è stato istallata una cabina telefonica.
Nel 1942 tutte le case sono state collegate a un acquedotto pubblico.
Nel 1958 la corrente elettrica ha raggiunto anche Cavaione.
Nel 1971 è stata chiusa la scuola.
Nel 1997 è stata creata la Fondazione Pro Cavaione.
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