Lo spettro del comunismo in Svizzera
In Svizzera il movimento anticomunista ha assunto dimensioni sproporzionate rispetto al pericolo rappresentato dai sostenitori della lotta di classe. Ne è convinto Jean-François Fayet, che con altri tre storici ha curato un volume su questo capitolo di storia svizzera.
«Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo»: inizia così il Manifesto del partito Comunista scritto tra il 1847 e il 1848 da Karl Marx e Friedrich Engel. Un fantasma che nel corso degli anni ha vestito i panni degli operai, dei fautori della lotta di classe, di coloro che sognavano un ordine sociale diverso, ma anche di semplici cittadini più critici verso il sistema.
In Svizzera la “paura dei rossi” si è diffusa ancor prima della costituzione del partito comunista nel 1921, quando la rivoluzione bolscevica non aveva ancora mutato gli equilibri europei. Lo sciopero generale del novembre 1918, al quale parteciparono 250’000 lavoratori, è stato probabilmente l’apogeo della lotta anticomunista e ha segnato una svolta nella percezione della “minaccia operaia”. Per oltre mezzo secolo la Svizzera ha condotto una vera e propria caccia alle streghe, culminata nel 1989 con lo scandalo delle schedature.
Swissinfo.ch ne ha discusso con lo storico Jean-François Fayet, che assieme a Michel Caillat, Mauro Cerutti e Stéphanie Roulin ha pubblicato il volume in francese e tedesco “Histoire(s) de l’anticommunisme en Suisse”.
swissinfo.ch : Cosa significava essere anticomunisti in Svizzera?
Jean-François Fayet: Si dice spesso che gli svizzeri non sono legati ad ideologie particolari, ma in questo caso hanno saputo riconoscere nei presunti “comunisti” il nemico e canalizzare le loro energie in una lotta asimmetrica. Il movimento anticomunista ha così assunto proporzioni eccezionali rispetto al pericolo rappresentato per la nazione dai sostenitori della lotta di classe .
All’epoca era inconcepibile essere un bravo svizzero e nel contempo simpatizzare per i “rossi”. Il comunismo non era visto soltanto come un’ideologia politica, ma come una minaccia alla civiltà, ai valori comuni, e per questo i suoi detrattori hanno saputo convincere una parte importante della popolazione, al di là dell’appartenenza partitica.
swissinfo.ch : Cosa temevano questi movimenti?
J.-F. F.: Le paure legate al comunismo assumevano forme diverse: dallo spettro di una rivoluzione, alla minaccia di una ripartizione delle ricchezze o della soppressione della proprietà privata. Ma a differenza del comunismo – retto da ideali molto forti – l’anticomunismo era molto più complesso e confuso. In suo nome, la gente poteva avere ambizioni completamente diverse: per un socialdemocratico era importante combattere l’aspetto dittatoriale, mentre per un liberale il pericolo era rappresentato dalla nazionalizzazione delle fabbriche.
Ed è proprio questa libertà d’azione che ne ha favorito lo sviluppo, perché ha permesso di racchiudere dietro alla stessa bandiera paure e obiettivi profondamente diversi. A Friburgo, ad esempio, il movimento anticomunista era legato alla tradizione cattolica, mentre a Zurigo era più vicino agli ambienti economici e quindi contro la minaccia sindacalista.
swissinfo.ch : Nel libro si parla di una di manipolazione anticomunista, cosa significa?
J.-F. F.: L’anticomunismo non aveva come obiettivo soltanto la difesa nazionale, ma era un pretesto per prendere di mira tutte le persone che manifestavano un certo dissenso verso l’ordine costituito e un desiderio di emancipazione. L’anticomunismo si è così trasformato in uno strumento di controllo sociale, la cui manifestazione più grande è senza dubbio lo scandalo delle schedature del 1989. La bandiera anticomunista ha inoltre permesso di legittimare – paradossalmente – altre dittature, come l’apartheid.
swissinfo.ch : Che peso ha avuto la paura del comunismo sulla politica svizzera?
J.-F. F.: Più che sulla politica, lo spettro comunista ha avuto un ruolo determinante nell’elaborazione di un’identità nazionale. Non bisogna dimenticare che nel 1918 – all’uscita della prima guerra mondiale – la Svizzera si trovava in una situazione estremamente difficile, divisa al suo interno e accusata da Francia e Italia di fungere da base a un complotto germano-bolscevico.
In questo contesto, l’anticomunismo diventa un’arma perfetta per ricostruire un’identità nazionale attorno a un nemico comune. Non è un caso, d’altronde, che il dibattito sul Röstigraben sia riapparso proprio a partire dalla caduta del muro di Berlino, ossia quando la minaccia comunista è svanita. Fintanto che questo spettro era ancora vivo, la gente non si poneva più domande sulla propria identità, sul significato dell’essere svizzeri.
Il discorso anticomunista ha poi portato a una svalutazione di tutta la sinistra, anche di quella più moderata. La Svizzera è l’unico paese d’Europa che nell’ultimo secolo non ha conosciuto un’alternanza del potere tra destra e sinistra a livello federale. I valori socialisti sono spesso percepiti come esterni alla cultura e all’identità svizzera e questa è la conseguenza di oltre cinquant’anni di demonizzazione del comunismo.
swissinfo.ch : Cosa è cambiato dopo il crollo del muro di Berlino?
J.-F. F.: Se lo spettro comunista sembra essersi dissolto con la caduta del muro di Berlino, la minaccia antiterrorista ha però ripreso negli ultimi anni la totalità delle sue funzioni. I nemici vengono identificati altrove e bollati come “terroristi”. Ma è una minaccia ancor più vaga, sempre meno facile da riconoscere e quindi da legittimare. Sulla lista stilata dagli Stati Uniti delle presunte organizzazioni terroristiche figura di tutto, dai movimenti altermondialisti, ai seguaci di Mao, ai ribelli mussulmani. Anche in Svizzera, durante il G8 a Evian, i no global sono stati definiti “terroristi” dalle autorità ginevrine. Ma cosa significa terrorista? Quante organizzazioni al mondo si definiscono come tali?
Ora che i comunisti sono usciti di scena, bisogna trovare un nuovo obiettivo. Terrorista è dunque il termine col quale si identifica l’avversario, qualunque esso sia. È rassicurante, è utile per la nostra identità e risponde a un bisogno politico e sociale molto forte, soprattutto in un contesto così fragile come quello attuale.
Stefania Summermatter, swissinfo.ch
In Svizzera, il partito comunista nasce nel 1921 dalla fusione di una parte della sinistra socialdemocratica con i cosiddetti Vecchi comunisti (gruppo Forderung) e in poco tempo raggiunge quota 6’000 iscritti.
Nel decennio 1920-30 il partito arriva a livello nazionale fino al 2% dei voti e nel 1925 conquista tre seggi in Consiglio nazionale (Camera bassa).
Nel 1940, in piena seconda Guerra Mondiale, il Partito comunista viene proibito in Svizzera. Da tempo, però, aveva già perso consensi e sembra che contasse alla fine soltanto 350 membri.
L’impegno comunista nella Resistenza e la guerra dell’Armata Rossa contro il nazionalsocialismo portano tuttavia a una sua ripresa dei valori comunisti.
Nel 1944 viene così fondato il Partito svizzero del Lavoro (PdL)
Movimento di ispirazione marxista-leninista fino al 1982, il PdL si batte attualmente per la giustizia sociale, punto cardine del suo programma. In alcuni cantoni, questo movimento politico è conosciuto anche con il nome di Partito operaio popolare (Pop).
Rappresentato nel Parlamento federale dal 1947 non ha mai saputo conquistare un vasto consenso tra gli elettori.
Di conseguenza negli ultimi anni non ha mai avuto più di due o tre rappresentanti sotto la cupola di Palazzo federale.
Nel 1989, una commissione d’inchiesta parlamentare scoprì che le autorità giudiziarie federale per decenni avevano fatto sorvegliare centinaia di migliaia di persone (da 700’000 a 900’000 a seconda delle fonti).
Lo scopo invocato per giustificare le schedature era di proteggere il paese da attività sovversive comuniste.
Dal 1992, le attività della polizia federale sono sorvegliate dalla delegazione delle Commissioni di gestione del parlamento.
Le schede si trovano oggi negli archivi federali svizzeri. Trecentomila persone schedate hanno chiesto di vedere il loro contenuto negli anni immediatamente successivi lo scandalo.
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