Paese che vai, sistema dei media che trovi
Il paesaggio mediatico svizzero è in fase di trasformazione. swissinfo.ch si è rivolta alla sua rete internazionale per capire quali sistemi per i media pubblici abbiano preso piede altrove e come funzionino.
+ Cina: dipendenza dallo Stato – di Jufang Wang, Londra
+ Brasile: il potere mediatico degli oligarchi – di Ruedi Leuthold, Rio de Janeiro
+ India: finanziamento statale diretto e censura – di Shuma Raha, Nuova Dehli
+ Russia: anche i media privati controllati dallo Stato – di Fjodor Krascheninnikov, Jekaterinburg
+ Italia: radiotelevisione pubblica sotto pressione – di Angela Katsikantamis, Roma
+ Giappone: i media pubblici non possono fare pubblicità – di Fumi Kashimada, Lucerna
+ Francia: Parigi sogna una BBC francese – di Mathieu van Berchem, Parigi
+ Germania: tassa sull’economie domestiche per le emittenti pubbliche – di Petra Krimphove, Berlino
+ USA: i privati sono arrivati prima – di Lee Banville, Montana
+ Spagna: finanziamento attraverso i canali privati – di José, Wolff, Madrid
+ Tunisia: soggetti alla corruzione e alla cattiva gestione – di Rachid Khechana, Tunisia
Il 4 marzo in Svizzera si voterà sul futuro della radiotelevisione pubblica. Se la popolazione dovesse esprimersi contro il finanziamento attraverso il canone, il paesaggio mediatico svizzero subirebbe una trasformazione radicale.
La Confederazione dovrebbe tenersi completamente fuori dalla politica sui media. È questa la richiesta dei promotori dell’iniziativa popolare «No Billag»Collegamento esterno. Il testo dell’iniziativa a questo proposito è molto chiaro: «La Confederazione non sovvenziona alcuna emittente radiofonica o televisiva. […] La Confederazione o terzi da essa incaricati non possono riscuotere canoni. […] In tempo di pace la Confederazione non gestisce emittenti radiofoniche e televisive proprie.»
Nessuna alternativa
Non c’è alternativa. Questa è la posizione ufficiale della Società svizzera di radiotelevisione (SRG SSR), a cui appartiene anche swissinfo.ch, nel caso in cui l’iniziativa fosse approvata dal popolo. Uno scenario però improbabile, secondo i primi sondaggi realizzati per conto della SSR.
La SRG SSR è finanziata per tre quarti attraverso il canone. «Non ci sarebbe altro da fare che liquidare», è la posizione dei vertici dell’azienda.
La Svizzera sarebbe il primo paese in Europa a smantellare il servizio pubblico nell’ambito dei media. Tuttavia ci si può chiedere: se oggi i media finanziati con il canone non esistessero, li si inventerebbe?
La risposta dipende dalla cultura politica. In Russia per esempio quasi nessuno sarebbe disposto a pagare un canone, come scrive il nostro corrispondente. Lo Stato controlla fin nei dettagli ciò che i media possono riferire. Ci sono media privati russi, ma anche loro sottostanno di fatto all’approvazione da parte dello Stato.
È inoltre degno di nota che la piattaforma online per l’estero Russia Today, vicina al governo, abbia investito milioni di euro per rafforzare la propria presenza all’estero.
Così anche in Germania e in Francia. Solo per la sede a Parigi il portale ha sborsato 25 milioni di euro.
SWI ha conosciuto la censura
Quel che significhi la censura, SWI swissinfo.ch lo ha appreso in prima persona in Cina, dove non esistono media di diritto pubblico. La pagina in cinese di swissinfo.ch è stata ripetutamente bloccata dalla censura di Stato, dopo che la nostra redazione aveva scritto di «temi delicati» come per esempio la democrazia diretta.
Non sempre però dove c’è un sistema pubblico lo Stato è l’autorità di controllo. In Brasile per esempio – dove la televisione pubblica TV Brasil ha un ruolo piuttosto marginale – il paesaggio mediatico è nelle mani di pochi oligarchi. L’azienda dominante, Globo, si permette i migliori giornalisti del paese, ma nessuno la obbliga a farlo anche in futuro.
Anche negli USA i media puramente commerciali hanno una lunga tradizione. Un sistema di sostegno pubblico ai media è stato creato solo alla fine degli anni sessanta. Il finanziamento non avviene attraverso un canone, bensì tramite un sostegno federale diretto alla Corporation for Public Broadcasting (CBP). Quest’ultima finanzia a sua volta una parte del budget di vari media locali. Nella popolazione questo sistema è ben radicato e gode di ampio sostegno.
Il canone da solo non è un garante di indipendenza
Anche un sistema che rinuncia a una sovvenzione statale diretta e finanzia i media pubblici attraverso un canone non garantisce di per sé che i media possano svolgere la loro funzione politica. Determinante è chi riscuote il canone.
Se si tratta dello Stato in prima persona, c’è il rischio di una manipolazione dei media per interessi politici. In Tunisia, per esempio, per finanziare i media pubblici lo Stato riscuote un canone, pagato insieme alla bolletta della luce. I soldi confluiscono nelle casse dello Stato. Il resto viene finanziato attraverso il bilancio corrente. Questo favorisce fenomeni di corruzione e di cattiva gestione aziendale, come conferma il nostro corrispondente a Tunisi.
Anche in Europa si costata un crescente influsso dei governi sulle emittenti di diritto pubblico, in particolare nella parte orientale del continente. Ma anche in Austria e in Germania la destra ha rivendicato di recente controlli più severi.
Sostenitori fedeli ai vertici
In Polonia per esempio il partito PiS ha spinto il canale televisivo pubblico TVP a sostenere la sua linea conservatrice. Da una parte l’intero vertice della TVP è stato sostituito da seguaci del partito, dall’altra 200 giornalisti indipendenti hanno lasciato l’azienda.
La Polonia non è un’eccezione, come dimostra la classifica della libertà di stampa del 2017, pubblicata dall’organizzazione non governativa Reporter senza frontiereCollegamento esterno. In 61 dei 180 paesi elencati la libertà di stampa è diminuita. Tra questi ci sono paesi come la Francia, la Spagna, il Portogallo e l’Italia.
Chi deve pagare?
La situazione è simile in India, dove il governo ha un grande influsso sulle decisioni aziendali. Per esempio quando si tratta di creare nuovi posti di lavoro.
Un altro problema connesso al finanziamento attraverso un canone è la questione di chi sia tenuto a pagarlo. In Svizzera il numero di contribuenti è stato ampliato nel 2015, decisione confermata da una votazione popolare. Ora tutte le economie domestiche devono pagare, non solo quelle che hanno un apparecchio per la ricezione. Questo rende più facile incassare il canone, perché non servono più ispettori che controllino se in casa c’è un apparecchio radio, un televisore o un computer.
Inoltre bisogna assicurarsi che chi è soggetto al canone lo paghi davvero. In Giappone per esempio solo il 70-80% di chi è tenuto a pagare lo fa davvero. È un problema particolarmente grave, perché in Giappone le emittenti pubbliche non possono fare pubblicità.
Discussioni nei paesi vicini
Anche nei paesi vicini alla Svizzera si discute animatamente del finanziamento dei media pubblici. In Italia per esempio è stato introdotto il pagamento generalizzato del canone attraverso la bolletta della luce. Nel frattempo l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi ha lanciato il dibattito sull’opportunità di abolire completamente il canone.
In Germania si critica spesso il fatto che negli organi di sorveglianza dei media finanziati con il canone siedano anche rappresentati politici di interessi specifici. E in Francia il governo, sebbene non abbia un controllo diretto sui media pubblici, esercita una forte pressione per ridurre i costi, ciò che ha dato origine a un dibattito sulla qualità dei media.
Non solo in Svizzera dunque i media pubblici sono al centro delle discussioni politiche. È chiaro che nei prossimi anni il sistema dei media svizzero vivrà altri grandi cambiamenti, anche se il 4 marzo il popolo dovesse respingere l’iniziativa «No Billag», confermando l’attuale articolo costituzionale sulla radio e la televisione.
Nel 2019 la concessione dalla SRG SSR dovrà essere prorogata e in questo ambito la Confederazione potrebbe modificare il mandato. Già prima di quella data la Confederazione manderà in consultazione un progetto per una nuova legge sui media. La nuova legge dovrebbe regolamentare il ruolo dei media online e sostituire in seguito l’attuale legge sulla radiotelevisione.
SWI swissinfo.ch è un’unità aziendale della SRG SSR.
Cina: dipendenza dallo Stato
Di Jufang Wang, Londra
Poiché i media cinesi dipendono anche dal punto di vista redazionale dallo Stato, in Cina non esistono media pubblici in senso proprio. Prima che portali di attualità privati come Sina, Sohu e Netease cominciassero alla fine degli anni novanta a pubblicare notizie online, tutti gli organi di stampa erano di proprietà dello Stato o controllati dallo Stato.
In Cina i media sono «orecchie, occhi, bocca e lingua» del Partito comunista, del governo e del popolo. Alla testa della piramide c’è l’emittente di Stato CCTV. I suoi dirigenti sono molto interessati a collaborazioni internazionali con partner di altri paesi, anche occidentali.
Il Partito comunista pretende dai media l’obbedienza nei suoi confronti, il rispetto della «corretta opinione pubblica» e la promozione degli obiettivi fondamentali del socialismo.
Per quel che riguarda il finanziamento, dopo le riforme alla fine degli anni settanta e l’apertura politica i media di informazione sono gestiti in modo più conforme all’economia di mercato. In passato li si considerava piuttosto portavoce ideologici del partito-Stato, oggi sono aziende finanziate in buona parte dalla pubblicità e da altre attività commerciali.
Ma anche se questa riforma dei media basata su criteri economici ha modificato il modello di finanziamento dei media di informazione, i rapporti di proprietà e il controllo statale sono rimasti uguali.
Un altro sviluppo interessante è la diffusione di cosiddetti «self media», gestiti da persone singole su piattaforme di successo come WeChat. Alcuni di questi «self media» pubblicano regolarmente dei contenuti. I più noti hanno milioni di follower e quindi ottime premesse per attrarre la pubblicità. Con ciò funzionano in modo molto simile a media indipendenti, ma sono sottoposti alla censura da parte di enti statali.
L’articolo originale completo in cinese è disponibile qui:
Brasile: il potere mediatico degli oligarchi
di Ruedi Leuthold, Rio de Janeiro
Oltre il 70% del consumo televisivo nazionale è prodotto in Brasile da quattro grandi catene televisive, di cui oltre la metà dal leader TV Globo.
Nella stampa scritta i quattro principali gruppi editoriali possono contare sul 50% dei lettori. L’ente televisivo statale TV Brasile, che produce trasmissioni educative e culturali, ha una quota di utenti del 2%.
Il gruppo Globo viene criticato da una parte perché nell’informazione ha una posizione di monopolio. D’altro canto l’azienda si permette i migliori giornalisti. Lo stesso vale per gli sceneggiatori e i drammaturghi delle telenovelas, che sanno catturare il grande pubblico e che nel gigantesco paese creano un sentimento di appartenenza. Spesso gli autori intrecciano in modo accattivante nelle loro storie informazione e critica sociale.
Secondo uno studio di «reporter senza frontiere», in Brasile cinque famiglie controllano i cinquanta canali di comunicazione di maggior diffusione. E ne traggono ottimi profitti. I membri della famiglia Marino, proprietaria di Globo, sono tra i dieci brasiliani più ricchi. Edir Macedo, il predicatore evangelicale dell’azienda concorrente Record, è in 74esima posizione.
I proprietari dei media hanno saputo trarre profitto dagli scandali che scuotono il paese legati alla corruzione e alla disuguaglianza sociale.
L’articolo originale completo in portoghese è disponibile qui:
India: finanziamento statale diretto e censura
di Shuma Raha, Nuova Dehli
Prasar Bharati, l’ente radiotelevisivo pubblico indiano, è stato creato nel 1997 da una legge promulgata dal parlamento. Gestisce i canali radiofonici e televisivi nazionali Doordarshan (DD) e All India Radio (AIR). Prasar Bharati con i suoi 67 studi televisivi e le sue 420 stazioni radio è uno dei più grandi enti radiotelevisivi pubblici al mondo.
Prasar Bharati è finanziata direttamente dallo Stato e non con un canone. Oltre a ciò genera introiti commerciali, ampiamente insufficienti però per coprire le sue necessità finanziarie. Nei mesi scorsi è stata avanzata la proposta di privatizzare l’azienda. Ancora non è chiaro come questa misura si ripercuoterebbe sul suo modello di finanziamento.
Il rapporto tra Prasar Bharati e il governo è teso. La legge concede all’emittente una completa autonomia, ma concede nel contempo al governo la possibilità di partecipare alle decisioni quando si tratta di questioni finanziarie o di disposizioni amministrative. Per esempio quando si discute di nuovi progetti o della creazione di posti di lavoro. Prasar Bharati viene perciò anche spesso criticata come «portavoce» del governo.
Cronache distorte o anche una censura bella e buona non sono rare. DD ha per esempio trasmesso alla vigilia delle elezioni del 2014 un’intervista con l’allora candidato e oggi primo ministro Narendra Modi con tagli evidenti.
Quest’anno il discorso di Manik Sarkar, primo ministro dello Stato di Tripura, per il giorno dell’indipendenza indiana è stato oscurato perché alcune parti erano critiche nei confronti del governo Modi.
L’articolo originale completo in inglese è disponibile qui:
Russia: anche i media privati controllati dallo Stato
di Fjodor Krascheninnikov, Jekaterinburg
In Russia non ci sono media pubblici elettronici, digitali o a stampa che possano essere anche vagamente paragonati a quelli svizzeri. Formalmente tutti i media in questo paese sono statali o privati.
In pratica anche i media «privati» sono controllati dallo Stato, perché in Russia ogni proprietà privata può esistere solo grazie al permesso o alla tolleranza dello Stato. Perciò «La televisione pubblica», un’emittente fondata personalmente alcuni anni fa dall’allora presidente russo Dimitri Medvedev, è un canale televisivo puramente statale e perciò totalmente dipendente dal governo dal punto di vista finanziario, politico e dei contenuti.
Le russe i russi non pagano un canone. Questo non significa però che per loro i canali televisivi e radiofonici siano gratuiti. Sono finanziati direttamente dalle casse dello Stato e quindi da tutti i contribuenti. Le tasse sono detratte direttamente dal salario, una trasparenza dei costi in ambito mediatico non esiste.
Lo Stato controlla nel dettaglio tutti i media rilevanti per il sistema (TV, radio, online, stampa), indicando cosa, come, quando e in che forma può essere pubblicato e cosa non lo può essere. La popolazione accetta la situazione ed è persino d’accordo. Alla domanda se sarebbero disposti a pagare un canone e in cambio a ottenere un controllo democratico sui media, quasi la totalità delle russe e dei russi risponderebbe oggi: «No, naturalmente».
A colloquio con i media occidentali, nel corso di un congresso internazionale in Olanda, la caporedattrice di Russia Today ha però negato che i media russi siano sottoposti a un controllo così stretto da parte del Cremlino.
L’articolo originale completo in russo è disponibile qui:
Italia: radiotelevisione pubblica sotto pressione
di Angela Katsikantamis, Roma
In Italia il canone radiotelevisivo è diventato oggetto di dibattito. La tassa, poco amata dalla popolazione, finanzia il 70% dei programmi radio e TV dell’ente statale RAI.
La proposta del democratico Matteo Renzi di abolire il canone ha sollevato un gran polverone. Ha anche messo fine all’illusione che il cambiamento del sistema di fatturazione nel luglio 2016 chiudesse le discussioni sul canone.
Dal luglio 2016 il canone è fatturato insieme alla bolletta della luce, indipendentemente dall’effettivo utilizzo dei programmi RAI. Detto altrimenti: chi paga la bolletta della luce paga automaticamente anche il canone. Nello stesso tempo la tassa è stata ridotta da 100 a 90 euro (da 118 franchi svizzeri a 105) l’anno. Con il cambiamento di sistema le entrate sono aumentate dello 0,8%, raggiungendo gli 1,8 miliardi di euro (21, miliardi di franchi svizzeri).
La radiotelevisione pubblica si finanzia al 70% con il canone, il resto proviene dalle entrate pubblicitarie.
L’idea di base della radiotelevisione pubblica è di offrire un programma per quanto possibile lontano da una logica commerciale. Il 26,6% del palinsesto dei tre canali principali della RAI è dedicato all’informazione generale e agli approfondimenti, il 12,4% ai programmi e alle rubriche di cultura e circa il 10%, risp. il 16% per film extraeuropei e intrattenimento.
Nella radio la RAI occupa solo un quarto del mercato. Le emittenti private sono qui in maggioranza.
La stampa scritta in Italia appartiene a grandi gruppi editoriali privati. Lo Stato sovvenziona però alcuni giornali e pubblicazioni online con circa 10 milioni di euro l’anno (11,8 milioni di franchi svizzeri).
Dopo la recente riforma del 2017, sette categorie di editori possono richiedere un sostegno pubblico. Ne fanno parte le organizzazioni assistenziali e dei consumatori che pubblicano riviste su temi attinenti alle loro attività.
L’articolo originale completo in italiano è disponibile qui:
Altri sviluppi
In Italia la RAI resiste alla concorrenza delle emittenti private
Giappone: i media pubblici non possono fare pubblicità
di Fumi Kashimada, Lucerna
In Giappone la NHK è l’unica società di radiotelevisione di diritto pubblico. Gestisce numerosi programmi radiofonici e televisivi nazionali, oltre a un ampio servizio per l’estero chiamato NHK World (Radio Japan/NHK World TV).
I suoi programmi hanno una fetta di mercato di circa il 30%. Il rimanente 70% è suddiviso tra 127 aziende radiotelevisive commerciali, di cui 118 appartengono a una delle cinque grandi reti con sede a Tokio.
La NHK è finanziata per oltre il 95% con il canone. La legge non permette a NHK di fare pubblicità, gli introiti pubblicitari sono severamente vietati. Il divieto di pubblicità è molto rigido e vale anche per i testi delle canzoni. Per questo motivo una cantante ha dovuto per esempio cambiare il testo di una canzone durante una trasmissione musicale: «una Porsche rossa» è diventata «un’auto rossa».
Tutte le economie domestiche e le aziende che possiedono apparecchi in grado di ricevere i programmi televisivi sono obbligate per legge a pagare il canone. La tariffa mensile per le economie domestiche per la ricezione terrestre è di ¥ 1260 (11 franchi svizzeri), per la ricezione via satellite ¥ 2230 (19 franchi). Anche le aziende devono pagare il canone.
Solo il 70-80% di chi è tenuto a farlo paga però davvero il canone, perché finora chi non pagava non doveva temere grandi conseguenze. Le cose potrebbero però cambiare in seguito a una sentenza della corte suprema giapponese.
Le cinque grandi aziende radiotelevisive commerciali si finanziano essenzialmente attraverso la pubblicità. Ci sono forti relazioni tra quattro delle cinque reti dominanti e i quattro più importanti giornali nazionali: Yomiuri-shimbun (giornale conservatore di destra con la più alta tiratura al mondo) con Nihon TV, Asahi-shimbun con TV Asahi, Nihon Keizai shimbun con TV Tokyo, Sankei shimbun con Fuji TV.
Francia: Parigi sogna una BBC francese
di Mathieu van Berchem, Parigi
In Francia gli enti radiotelevisivi di diritto pubblico stanno attraversando un periodo difficile. La minaccia non proviene come in Svizzera da un’iniziativa popolare, bensì dallo stesso presidente: stando al settimanale L’Express, Emmanuel Macron avrebbe definito i media pubblici una «vergogna della repubblica».
Un progetto governativo «confidenziale» prevede ora di fondere France Télévisions e Radio France e creare quindi un’azienda con 17’000 dipendenti e un budget di 3,8 miliardi di euro (ca. 4,5 miliardi di franchi svizzeri). Il modello è la britannica BBC. L’obiettivo della riforma sarebbe la realizzazione di sinergie, in particolare nell’ambito dell’informazione giornalistica.
Un altro progetto di Macron riguarda il sistema del canone: oggi i proprietari di televisori devono pagare una tassa di 138 euro (162 franchi svizzeri) l’anno. Questo frutta allo Stato circa 4 miliardi di euro (4,7 miliardi di franchi), di cui il 66% va a France Télévisions, il 7% ad Arte e il 16% a Radio France. È prevista un’estensione dell’obbligo di pagare il canone anche ai proprietari di apparecchi che hanno accesso a internet. Oggi il canone è collegato alla tassa sulle economie domestiche. Tassa che Macron vuole però abolire, per cui si porrà la questione dell’incasso.
L’emittente televisiva principale France 2 è combattuta da tempo tra due obiettivi contrastanti: da una parte è in concorrenza con il grande canale privato TF1, anche se lo scorso anno entrambe le emittenti hanno registrato un lieve calo della quota di utenti (20% per TF1, 13% per France 2) a favore dei canali di informazione giornalistica.
D’altro canto gli standard di qualità di France 2 sono a rischio, in particolare da quando all’emittente è stato vietato di trasmettere pubblicità dopo le 20. La misura ha cancellato dal bilancio circa 500 milioni di euro (circa 590 milioni di franchi).
L’articolo originale completo in francese è disponibile qui:
Germania: tassa sull’economie domestiche per le emittenti pubbliche
di Petra Krimphove, Berlino
La messa in onda nel 1984 del primo canale privato in Germania, Sat 1, è stata una pietra miliare. Quasi nello stesso momento è arrivata anche RTL plus. Da allora nel sistema radiotelevisivo duale tedesco le emittenti pubbliche come ARD e ZDF sono in concorrenza con i canali commerciali.
Le reti private funzionano come aziende di diritto privato e devono finanziarsi esclusivamente con la pubblicità o, nel caso delle TV a pagamento, con i proventi degli abbonamenti. Questo aumenta la pressione per ampliare le quote d’ascolto: più persone guardano il canale, più soldi arrivano. Per cui si trasmette ciò che piace al pubblico.
I canali pubblici devono adempiere un mandato di informazione e promozione della cultura. I loro servizi giornalistici e i loro talkshow sono ancora considerati dai tedeschi le fonti d’informazione più serie nella giungla dei media.
In quanto enti di diritto pubblico, ARD e ZDF vengono finanziate essenzialmente con un canone. I media pubblici hanno a disposizione ogni anno ben 8 miliardi di euro (9,4 miliardi di franchi svizzeri) per realizzare il loro programma. Ogni economia domestica tedesca deve pagare ogni mese 17,50 euro (21 franchi), indipendentemente dal consumo effettivo dei programmi di ARD, ZDF e affiliate.
Mentre alcune voci critiche biasimano una presunta tendenza a sinistra dei canali radiotelevisivi pubblici e parlano di «emittenti rosso-verdi», altre denunciare la «chiara impronta» del partito borghese conservatore CSU. Di fatto negli organi di sorveglianza, accanto ai rappresentanti di molte organizzazioni della società civile come i sindacati e le associazioni economiche, siedono anche rappresentanti dei partiti politici, che fanno sentire la loro voce.
L’articolo originale completo in tedesco è disponibile qui:
USA: i privati sono arrivati prima
di Lee Banville, Montana
L’esistenza di media pubblici negli Stati uniti non è mai stata scontata. Al contrario di molti altri paesi, dove con l’avvento della radio e della televisione si si sono sviluppate forme di finanziamento pubblico dei media, negli USA le emittenti radiotelevisive commerciali sono state a lungo dominanti. Il governo ha costruito un sistema radiotelevisivo pubblico piuttosto tardi.
Solo con la legge sulla radio e televisione del 1967 sono state create le basi per un finanziamento federale di media pubblici ed è stata fondata la Corporation for Public Broadcasting (CPB).
I media pubblici negli USA non sono enti statali, ma istituzioni pubbliche locali, che si finanziano attraverso un combinazione di fondi federali, mecenati, aziende e fondazioni.
Al contrario di altri paesi dove la radiotelevisione pubblica è finanziata con una tassa sugli apparecchi riceventi o con un canone per gli utenti, la CPB riceve finanziamenti federali diretti. Ciò significa che il Congresso deve approvare l’intero budget destinato dal governo alla radiotelevisione pubblica.
Le due reti nazionali più importanti, Public Broadcasting Service (PBS) per la televisione e National Public Radio (NPR) per la radio, sono associazioni che mettono contenuti a disposizione dei loro proprietari locali, che sono propriamente delle stazioni di radiodiffusione terrestre.
Alcuni critici hanno messo in discussione la necessità dei media pubblici, visto che il numero di collegamenti via cavo è in aumento. Dei sondaggi di opinione hanno però indicato che il 70% della popolazione è favorevole al finanziamento pubblico per PBS e NPR.
L’articolo originale completo in inglese è disponibile qui:
Spagna: finanziamento attraverso i canali privati
di José, Wolff, Madrid
In Spagna il concetto di media di diritto pubblico risale alla creazione di Radio Nacional de España nel 1937 e di Televisión Española nel 1956. Dal 1978 l’accesso alle informazioni è un diritto fondamentale sancito dalla costituzione: lo Stato deve mettere a disposizione un servizio radiotelevisivo pubblico.
Al momento entrambi i canali sono parte della Corporación Radiotelevisión Española (RTVE), una società per azioni che appartiene al 100% allo Stato. La legge garantisce tuttavia la sua indipendenza dal governo, dai partiti e dalle aziende. La RTVE è responsabile solo di fronte al parlamento. Il consiglio di amministrazione, formato da nove persone, viene eletto in seduta congiunta dalle due camere del parlamento.
Il finanziamento di RTVE è garantito per la metà direttamente dalle casse dello Stato. L’altra metà proviene da tasse sulle società telefoniche (0,9% degli introiti), sui canali televisivi privati (3% degli introiti) e sui gestori di pay TV (1,5% degli introiti).
Le emittenti private nazionali sono parte di grandi gruppi internazionali come Mediaset, Prisa e El Mundo, di gruppi editoriali spagnoli come Vocento e Godó oppure della chiesa cattolica. Sono finanziate in ampia misura con la pubblicità.
L’articolo originale completo in spagnolo è disponibile qui:
Tunisia: soggetti alla corruzione e alla cattiva gestione
di Rachid Khechana, Tunisia
In Tunisia il quotidiano La Presse de Tunisie e il suo corrispettivo arabo Assahafa sono fra i media pubblici più vecchi. Negli ultimi anni la tiratura di entrambe le testate ha subito un drastico calo. Non sono giornali indipendenti, gli avversari li hanno ribattezzati, riferendosi alla censura nell’Unione sovietica, «la Pravda della Tunisia».
Oltre ai giornali, lo Stato in Tunisia controlla anche oltre il 98% delle azioni dell’agenzia stampa ufficiale Tunis Afrique Presse. Al momento l’agenzia dà lavoro a 304 persone, di cui 168 sono giornalisti.
La gestione delle emittenti radiofoniche pubbliche è molto costosa per lo Stato. È tenuto a versare 14 milioni di dinari (5,6 milioni di franchi svizzeri) per i salari, che corrispondono al 76% dei costi. Un canone contribuisce al finanziamento di radio e televisione pubblica con circa 13 milioni di dinari (5,2 milioni di franchi). A questo si aggiungono gli introiti per la pubblicità, stimati a 2 milioni di dinari (0,8 milioni di franchi).
Nela televisione pubblica la situazione è ancora più difficile, perché il budget annuale dell’azienda è di circa 56 milioni di dinari (22,4 milioni di franchi svizzeri), di cui 14 milioni (5,6 milioni di franchi) provengono dalla pubblicità e 5 milioni (5,2 milioni di franchi) dalla vendita di programmi. Il resto deve essere finanziato dallo Stato.
Anche qui viene riscosso un canone abbinato alla bolletta della luce. Ma non basta. Il canone non viene versato direttamente alla radio e alla televisione, ma confluisce nelle casse dello Stato e questo offre spazio a fenomeni di corruzione e cattiva gestione. Non c’è nessuna trasparenza, i proventi del canone pagato dai cittadini per finanziare le emittenti radiotelevisive non vengono resi pubblici. Era così prima della rivoluzione tunisina del 2010-2011 ed è così ancora oggi.
L’articolo originale completo in arabo è disponibile qui:
(Traduzione: Andrea Tognina)
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