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Medici e pazienti: talvolta serve l’interprete

La comprensione linguistica è una componente fondamentale dei rapporti tra ammalati e personale curante. Bilderbox

Il senatore ecologista Luc Recordon ha proposto di assicurare la presenza di interpreti negli ospedali, per aiutare i pazienti alloglotti. La Camera dei cantoni ha però respinto la sua mozione.

Se – per motivi linguistici – il paziente non riesce a comunicare con il medico, le conseguenze possono essere molto gravi: diagnosi errate, trattamenti inappropriati, appuntamenti mancati e persino la rinuncia del malato a farsi curare, ad esempio nel caso di un trattamento psicoterapeutico.

Alla luce di questi rischi e dei costi supplementari che ne conseguono, il consigliere agli Stati ecologista Luc Recordon ha depositato, lo scorso 1° ottobre, una mozione in cui chiede al governo di istituire un sistema che prevede l’intervento d’interpreti specializzati per appianare le difficoltà di comprensione tra pazienti e personale curante.

Tuttavia, la Camera dei cantoni ha deciso giovedì di respingere la mozione (20 voti contrari e 10 favorevoli), che deve però essere ancora sottoposta al Consiglio nazionale (Camera del popolo).

Necessità reale

Nonostante il parere negativo dei senatori, «il servizio caldeggiato da Recordon è senza ombra di dubbio necessario: c’è infatti un fossato tra le esigenze di chi opera concretamente in ambito clinico e le strategie politiche per rispondere a queste necessità. Manca una soluzione efficace e soprattutto valida per tutta la Confederazione», afferma Rossi, che dall’inizio degli anni Novanta lavora al Policlinico di Losanna, dove si occupa di mediazione culturale, segnatamente della presa a carico dei pazienti immigrati.

Ma come si opera attualmente sul terreno in caso di mancata comunicazione? «Alcune istituzioni mettono a disposizione finanziamenti per assicurare il lavoro dei cosiddetti interpreti comunitari – quelli che dispongono cioé di una formazione specializzata nell’ambito della mediazione culturale –, mentre si deve ricorrere a professionisti della salute o volontari, talvolta non diplomati, perché mancano i soldi per pagare degli interpreti professionisti».

In genere, riassume Rossi, «per le situazioni cliniche o psicosociali più complesse i fondi vengono reperiti, ma molte altre situazioni restano scoperte».

Tentativo precedente

Già nel 2006, la consigliera nazionale Anne-Catherine Menétrey-Savary aveva depositato un’iniziativa parlamentare dai contenuti analoghi, auspicando che le spese di traduzione fossero coperte dai poteri pubblici o dall’assicurazione di base.

A tal fine, la deputata aveva proposto di far figurare gli interpreti tra i fornitori di prestazioni riconosciuti dall’assicurazione malattia. In alternativa, «il medico potrebbe fatturare questo tipo di prestazioni, come se l’interprete fosse un paramedico a cui può delegare compiti specifici».

Finanziamento problematico

La maggioranza della Commissione della sicurezza sociale e della sanità del Consiglio nazionale aveva però deciso di non dare seguito all’iniziativa, argomentando che offrire servizi di mediazione culturale è un compito di politica sociale che non deve perciò essere risolto nel quadro della legge sull’assicurazione malattia, improntata all’assistenza sanitaria.

Secondo la Commissione, «sancire nella legge il diritto a ricevere simili servizi causerebbe costi supplementari che farebbero crescere ulteriormente i premi. Inoltre, vi sarebbero da temere controversie giuridiche quanto al diritto alle prestazioni».

Da ultimo, viene sottolineato che offrire «un servizio di traduzione quale prestazione obbligatoria difficilmente motiverebbe gli immigrati ad apprendere una lingua nazionale, elemento importante nell’ottica dell’integrazione».

Problema politico

Nella sua formulazione, Recordon è meno tassativo: «Gli ospedali e gli studi medici privati dovrebbero poter disporre di una rete di interpreti per i problemi semplici di comprensione reciproca, e una rete di interpreti comunitari per le situazioni che necessitano un approccio più approfondito. Il ricorso a queste prestazioni non sarebbe sistematico, ma il loro finanziamento dovrebbe essere regolato in modo uniforme e coerente».

Secondo Ilario Rossi, quella del finanziamento «è una questione prettamente politica. Nell’Europa settentrionale, per esempio, i costi di retribuzione di questi professionisti sono interamente assunti dallo Stato. Qui in Svizzera, invece, cerchiamo delle risposte che non scontentino nessuno ma che poi si rivelano poco efficaci».

Inoltre, «va sottolineato che le somme non sono trascurabili, ma costituiscono comunque una percentuale assai ridotta se paragonata alla spesa sanitaria globale nella Confederazione. Perlomeno per quante concerne gli ospedali pubblici, questi finanziamenti dovrebbero essere garantiti dai poteri pubblici o dalle casse malati».

Rossi conclude facendo presente che «esistono delle direttive emanate dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal progetto europeo “Migrant Friendly Hospital” che sottolineano l’esigenza – per altro riconosciuta dalla legge sull’assicurazione malattia – di garantire una medesima qualità di trattamento per tutti i pazienti, ciò che passa evidentemente dalla possibilità di esprimersi nella propria lingua. Si tratta di una condizione indispensabile nella nostra società multiculturale».

swissinfo, Andrea Clementi

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Ilario Rossi ha ottenuto nel 1997 un dottorato in antropologia all’università di Losanna, dopo la laurea conseguita a Neuchâtel e soggiorni di studio in Messico. Ha pubblicato numerosi articoli concernenti l’antropologia medica, l’antropologia delle religioni, l’etnologia, l’etnopsichiatria e le medicine tradizionali.

Le sue ricerche e i suoi corsi concernono soprattutto le relazioni tra salute, mondializzazione, medicina e società.

Rossi ha inoltre lavorato per il Dipartimento federale della sanità pubblica e ha collaborato in veste di consulente scientifico con numerosi musei e istituzioni culturali.

Attualmente si occupa di mediazione culturale al Policlinico universitario di Losanna ed è professore associato alla Facoltà di Scienze sociali e politiche della locale università .

Gli interpreti comunitari – in Svizzera ve ne sono oltre 500 – hanno seguito una formazione specifica organizzata da diverse associazioni, e dispongono di diploma riconosciuto a livello federale (certificato INTERPRET).

Grazie alle loro competenze, facilitano la comprensione tra i migranti e il paese d’accoglienza, segnatamente in ambito medico, educativo e sociale.

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