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L’emancipazione dei desideri

Jean-Paul Belmondo läuft neben Werbeplakat vorbei
Keystone

Il 1968 non arrivò di punto in bianco. Questa data è diventata il simbolo di vari profondi mutamenti. La serie “Prima del ‘68” punta i riflettori su nuove tendenze e fenomeni sociali in Svizzera dopo il 1945. Alla fine degli anni Sessanta, l’economia scopre nei giovani e nelle donne dei nuovi e ambiti consumatori. Fin dall’inizio, il desiderio è una componente importante della rivolta.


Nel 1967, i giovani spettatori del concerto dei Rolling Stones fanno a pezzi l’Hallenstadion. Un anno più tardi, poco prima della guerriglia urbana di Zurigo, ricordata come il Globuskrawall, in cui i giovani rivendicano l’area appartenuta all’omonima catena di negozi per sviluppare un centro di cultura alternativa, circolano dei volantini in cui si legge: «I can’t get no satisfaction».

È lo slogan con cui la gioventù ribelle intende lottare contro le radicate abitudini quotidiane: i momenti al bar dopo il lavoro, la televisione, i pantofolai, le birre bevute a canna. L’inno degli Stones andava bene sia per gli scontri in piazza sia per le discussioni sulla difficoltà a raggiungere l’orgasmo, ma anche per i pomeriggi trascorsi a fare shopping in centro città. Stando allo storico Jakob Tanner, a lottare contro l’apatia della società non sono solo i sessantottini, bensì l’intera società, mossa da una sorta di psicodinamica volta a soddisfare i propri desideri.

Scoperta di sé stessi nel grande magazzino

Nella primavera del 1959, una serie di inserzioni invitano le persone di Zurigo, dando loro del tu, a conoscersi meglio: «Scopri te stesso! In ogni persona si nasconde molto di più di quanto uno crede». Gli abitanti della città sulla Limmat venivano paragonati a Marco Polo, Magellano o Colombo; l’unica differenza con questi avventurieri era che dovevano issare le vele dentro di sé.

Non era un istituto che promuoveva uno stile di vita alternativo o una cooperativa di artisti a invitare la gente a un viaggio interiore, bensì la catena di negozi Globus. Vagando tra gli scaffali, i clienti dovevano «far sbocciare» le loro sopite forze interiori, acquistando per esempio nuovi accessori per fare delle grigliate all’aperto.

Alcuni anni dopo, il responsabile dell’arredamento di interni del grande magazzino, Peter Kaufmann, filosofava sul fatto che fare gli acquisti potesse strappare la gente dalla monotonia della vita. Negli anni Sessanta, gli spazi nei negozi si trasformano così in luoghi in cui ampliare la consapevolezza di sé stessi.

una donna verifica los contrino in un negozio
In un negozio Migros di Zurigo, 1966: delle casse permettono al cliente di calcolare la propria spesa. Keystone

Più desiderio, meno parsimonia

Alla fine degli anni Quaranta, il dettagliante Migros aveva introdotto il self-service in Svizzera. Le persone potevano circolare tra gli scaffali, lasciandosi ispirare dalla merce esposta. Nello stesso periodo, la ditta americana specializzata nella consulenza di mercato Ernest Dichter apriva la sua prima filiale in Svizzera. All’inizio degli anni Sessanta, il suo proprietario Ernest Dichter si atteggia come l’Herbert Marcuse del consumo. Quest’ultimo, filosofo e sociologo, pubblica nel 1964 l’opera “L’uomo a una dimensione” che riscontra un’enorme successo durante le rivolte del ’68.

Secondo Dichter, per contrastare in maniera efficace la superiorità dell’Est socialista, l’Occidente doveva spezzare tutte le catene del puritanesimo per permettere alla gente di dare libero sfogo ai propri desideri. Nel 1961, nel suo libro “Strategy of Desire“, scrive che l’economia di mercato è destinata a fallire se «non si abbandona l’idea che sia immorale condurre una vita comoda».

Nello stesso anno, nell’ambito di un convegno del Think-Tank tenuto nel Parco Prato verde della Migros, conosciuto semplicemente come Dutti-Park, il teorico della pubblicità Pierre Martineau indica che è necessario «rieducare» la gente: bisogna insegnarle a seguire le sue pulsioni, i suoi desideri e a lasciarsi finalmente alle spalle le ristrettezze degli anni della Seconda guerra mondiale.

Con questa idea si vuole ridare slancio alle vendite, visto che si registra una stagnazione a causa della riluttanza da parte della gente di fare acquisti. Le persone hanno ormai comperato i prodotti di cui hanno bisogno. Quasi tutti hanno un frigorifero in casa, gli elettrodomestici necessari, una televisione. Nei negozi iniziano a fare la loro comparsa dei prodotti destinati solo a cerchie specifiche di persone: si comincia a puntare su target di potenziali clienti. Gli articoli vengono pubblicizzati come tasselli che contribuiscono a comporre la propria identità e soprattutto si scoprono i giovani come gruppo di consumatori.

La bambola Barbie

Il programma verte sostanzialmente su un concetto: più io, più desiderio, più voglia per raggiungere una maggiore satisfaction. Naturalmente questo tentativo di influenzare le masse suscita ampie discussioni. Il dibattito è particolarmente acceso intorno alla bambola Barbie, diventata per alcune cerchie di persone «il problema numero uno».

La bambola fa la sua prima comparsa sugli scaffali dei negozi di giocattoli in Svizzera nel 1965 e non tutti la accolgono a braccia aperte. Nella rivista femminile Annabelle viene descritta come una «piccola bomba sexy» che si è liberata da qualsiasi «zavorra morale». Dal canto suo, la televisione svizzera rimpiange le bambole di una volta a cui si poteva ancora mettere il pannolino e cullare amorevolmente. Nell’articolo pubblicato su Annabelle si scrive che la bambola veicola la promiscuità, frutto del consumismo e della pubblicità. Visto che rompe con l’archetipo classico della donna, Barbie diventa per le giovani un modello a cui ispirarsi.

tre donne e un uomo in posa negli anni sessanta
I camerieri del bar “Revolution” aperto a Zurigo nel 1969. Keystone

La consumista ideale non è più la casalinga e mamma assennata e morigerata, bensì una donna che cerca di soddisfare i suoi desideri e il bisogno di mettersi in mostra. L’acceso dibattito intorno alla bambola e al suo design favorisce il successo della Barbie.

Prima di lanciarla sul mercato, l’istituto di Ernest Dichter svolge uno studio sull’impatto che avrebbe avuto il prodotto sui clienti: da una parte la bambola deve rispondere al bisogno della mamma di insegnare alla figlia a vestirsi con stile per diventare un’attraente donna da sposare, dall’altra la bambola è uno «strumento di ribellione» contro i genitori. Dagli anni Sessanta, consumo e rivolta diventano tutt’uno.

Traduzione dal tedesco di Luca Beti

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