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Perché la Svizzera è così divisa sul burnout

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Gli ultimi sondaggi indicano che più di un quarto dei lavoratori svizzeri soffre di livelli critici di stress sul posto di lavoro. Keystone

Il burnout è un fenomeno ancora poco compreso dai datori di lavoro e dagli operatori sanitari, nonostante una nuova classificazione da parte delle autorità sanitarie mondiali. La Svizzera, con la sua cultura della paura del fallimento, sta facendo i conti con la condizione e il modo di curarla.

La voce di Per R.* si spezza quando ricorda come tutto è iniziato. Sono passati tre anni da quando ha avuto un burnout, ma parlarne riporta alla mente molti ricordi dolorosi.

Svedese, padre di due figli e residente da oltre 20 anni in Svizzera, era rappresentante di vendita in un’azienda di strumenti medici quando ha smesso di dormire. “È stato il primo segnale. È successo poco meno di un anno prima del vero esaurimento”, ci racconta.

Sei mesi dopo la sua motivazione crolla. “Mi ricordo che alla fine dell’estate partecipavo a una conferenza e mi sentivo completamente perso. Era un po’ come trovarsi nel film sbagliato. Ho iniziato a evitare amici e parenti e ogni piccolo problema quotidiano mi sembrava insormontabile”. Si rivolge allora a uno psichiatra, che gli chiede se ha pensieri suicidi. La sua risposta è negativa, ma ammette di sentirsi stressato e di avere perso il controllo.

Si prende un po’ di tempo libero, ma dopo essere ritornato al lavoro sopraggiunge il crollo, che lo conduce dritto al pronto soccorso. “Lo stress e la mancanza di sonno sono tali che si pensa di non essere più in grado di sopravvivere”, spiega.

Sono affetto da burnout?

Lo psichiatra statunitense di origine tedesca Herbert Freudenberger è stato il primo negli anni ’70 a descrivere i sintomi e a condurre un’ampia ricerca sul burnout.

La maggior parte della letteratura scientifica distingue diverse fasi nel burnout. Generalmente inizia con una fase di sovra-attività, che Claudia Kraaz chiama di “attività e aggressione”. Le persone hanno la sensazione di essere indispensabili e iniziano a trascurare i propri bisogni.

La seconda fase – “di fuga e ritiro”, sempre per usare le parole di Claudia Kraaz – è quando le persone sembrano trasudare calma ma in realtà stanno attraversando un momento di intorpidimento e sono in uno stato di ansia. Questa fase è spesso accompagnata da segnali fisici, come palpitazioni, disturbi del sonno e aumento della sudorazione.

La terza fase è di “isolamento e inerzia”. Si tratta di una forma estrema della seconda fase, spesso accompagnata da depressione, esaurimento estremo e perdita di ogni prospettiva. La persona si sente spesso in uno stato di paralisi.

Come definirlo?

Per R. non c’è dubbio: è vittima di burnout. La comunità medica svizzera non è però ancora sicura cosa ciò significhi, quali siano le cause e come curarlo.

“La gente pensa che non ci si ammala di lavoro. Nella maggior parte dei casi si parla di depressione”, dice.

Il burnout è riconosciuto come malattia professionaleCollegamento esterno in almeno nove paesi europei, tra cui Francia, Svezia e Paesi Bassi. Negli Stati Uniti, una ricerca mostra che il 77% degli impiegatiCollegamento esterno ha avuto esperienze di burnout.

Tuttavia, il dibattito sul fatto di poterlo considerare una malattia o semplicemente uno stato d’animoCollegamento esterno è più acceso che mai. Recentemente uno psichiatra americano ha suscitato numerose reazioni, chiedendosi se non si fa altro che “medicalizzare l’angoscia quotidiana”. “Se quasi tutti soffrono di burnout – scrive Richard FriedmanCollegamento esterno – il concetto perde ogni credibilità”.

Un paio di settimane fa, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di Ginevra ha annunciato che il burnout sarà aggiunto all’Elenco internazionale delle malattieCollegamento esterno. In altre parole, il burnout non è più considerato ‘solo’ come uno stato di esaurimento, bensì una sindrome causata dallo stress da lavoro.

Non una malattia vera e propria, ha precisato l’Oms correggendo quanto riportato da diversi media, ma un fattore che ha un impatto sulla salute.

Questo distinguo è importante per molti paesi, Svizzera inclusa, poiché classificando il burnout come malattia cambierebbe il modo in cui viene considerato dalle assicurazioni malattie. Un’iniziativaCollegamento esterno attualmente in discussione al Parlamento svizzero propone di classificare il burnout come malattia professionale. In questo caso, le cure verrebbero coperte dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro.

La psichiatra Barbara Hochstrasser, che ha avviato un programma per il burnout alla Clinica di Meiringen, una delle dieci cliniche svizzere che offrono cure per questa sindrome, ritiene che l’Oms sia sulla strada giusta.

Secondo lei, il burnout – causato “da stress cronico legato al lavoro” – non è una malattia, ma “un fattore di rischio che può condurre ad altre disfunzioni fisiche o psichiche, in primo luogo la depressione”.

La sofferenza è reale e va curata, prosegue la psichiatra. Trattandosi di un esaurimento “molto profondo”, ci vuole molto tempo per essere curato e le medicine non servono.

Burnout, quando il lavoro logora – Approfondimento della trasmissione Il Quotidiano

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Cambiare la cultura del lavoro

Se la colpa sia da imputare al posto di lavoro è un altro tema ‘caldo’. L’iniziativa in discussione al Parlamento ha incontrato una forte resistenza da parte di alcuni politici, secondo i quali è difficile dimostrare il nesso causale tra burnout e attività professionale. Spesso ci sono altre cause esterne che intervengono, ad esempio le relazioni personali. Barbara Hochstrasser ritiene dal canto suo che il volume di lavoro, la mancanza di autonomia e di ricompense, nonché le dinamiche di gruppo sul posto di lavoro svolgano un ruolo fondamentale.

Altri sviluppi

Inoltre, non c’è dubbio – prosegue – che l’odierna cultura del lavoro, imperniata sull’essere sempre connesso e sulla flessibilità, sia una delle concause del numero crescente di casi di burnout.

Claudia Kraaz ha lavorato per molti anni nel settore comunicazione del Credit Suisse e oggi è coach e propone dei corsi di gestione dello stress. Secondo lei, i datori di lavoro potrebbero fare di più per prevenire il burnout, ad esempio per il modo in cui i manager trattano e si relazionano coi loro dipendenti.

La coach e la specialista di comunicazione sostiene che le persone più a rischio sono quelle che hanno tendenza ad assumersi troppi impegni nel loro lavoro. Spesso è una questione di personalità e di stile di gestione, specialmente tra i quadri intermedi. “Chi è perfezionista incorre in rischi maggiori, è chiaro”, spiega.

“In Svizzera – prosegue Claudia Kraaz – il fallimento non è tollerato“. In altri paesi, invece, sbagliare non è così malvisto. Anzi, è spesso considerato come un passo necessario per avanzare ulteriormente.

“Qui la gente pensa che si debba fare tutto al mille per cento in modo corretto. È così che siamo cresciuti. Se fallisci una volta, hai un problema”.

Per R. è sulla stessa lunghezza d’onda: “L’efficienza è talmente importante in Svizzera. Non bisogna perdere tempo, non c’è tempo per sentire nulla. Si è come un criceto su una ruota. E una volta stigmatizzato, sei fuori!”.

Boom dei trattamenti

Diversi personaggi pubblici hanno parlato apertamente di quanto hanno vissuto, ciò che ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e a ridurre la stigmatizzazione nei confronti di chi soffre di burnout.

In tutto il paese sono spuntati ambulatori per il burnout, dei gruppi di sostegno e dei coach specialisti dell’equilibrio fra lavoro e vita privata.

Seguire un trattamento e poi ritornare come nulla fosse alla vita quotidiana precedente non è però sufficiente, spiega Claudia Kraaz. “Se le persone ricadono nella stessa routine di prima, possono facilmente ritrovarsi di nuovo in trappola”.

Il suo consiglio? Non fare niente. “Nel tempo libero corriamo sempre. Ogni due settimane, prendetevi uno o due giorni senza avere nulla in programma. Svegliatevi e semplicemente ascoltate le vostre sensazioni”.

*nome noto alla redazione

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