Assassinio al Grand Hotel: un errore fatale
Nel 1906, una giovane russa uccide un uomo d'affari francese in un albergo di Interlaken, nel cantone di Berna. L'anarchica viene giudicata da una giuria formata soprattutto da contadini della regione, che si dimostrano clementi nei suoi confronti.
C’è un gran viavai di camerieri in grembiule bianco nell’ampia sala da pranzo del Grand Hotel Jungfrau di Interlaken, quando una giovane donna si alza in piedi, estrae una pistola dalla borsetta ed esplode tre colpi contro l’uomo che siede nel tavolo accanto.
Altri sviluppi
“Questo mese salterà in aria Palazzo federale. Tremate!”
È il caos. Gli ospiti fuggono in preda al panico e diverse donne, prese da un malore, cadono a terra. L’assassina spara altri quattro colpi sulla vittima, poi attraversa la sala a testa alta.
Un cameriere l’afferra per il polso, mentre un altro le toglie la pistola di mano. “È inutile ricorrere alla violenza contro di me”, dice loro la giovane donna. “Lo vedete voi stessi che non oppongo alcuna resistenza e che non voglio scappare”.
Durante il primo interrogatorio, la donna spiega che si è trattato di un atto di giustizia politica. Ha eseguito la condanna a morte inflitta dal Partito socialista rivoluzionario russo all’ex ministro degli interni Piotr Durnovo. Tuttavia, il cliente dell’albergo morto poco dopo l’attentato non è né russo né un politico. È Charles Müller, un imprenditore francese, vittima di un errore fatale.
Chi è l’assassina?
L’assassina si rifiuta di indicare le sue generalità alla polizia. Nonostante si sia iscritta nel registro dell’hotel come signora Stafford di Stoccolma, il suo accento suggerisce piuttosto un’origine russa.
Nella sua camera d’albergo non c’è nulla che possa svelare la sua identità. Tutte le etichette dei vestiti sono state accuratamente rimosse. E l’uomo che l’accompagnava è sparito nel nulla, senza lasciare tracce.
L’assassinio al Grand Hôtel e il mistero che avvolge l’autrice hanno tutte le carte in regola per finire sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo.
“Le drame d’Interlaken. La nihiliste s’est trompée”, (Il dramma di Interlaken. La nichilista si è sbagliata) scrive il Petit Parisien. Il tabloid più letto nella capitale francese invia immediatamente un corrispondente speciale a Interlaken. Il giorno dopo, il giornalista scrive che “in questo magnifico angolo di Svizzera” è difficile immaginare che “la frenesia rivoluzionaria si sia potuta diffondere e ancora meno che abbia potuto armare una donna”.
I giorni seguenti, il corrispondente fa domande a camerieri, clienti dell’albergo e alla guardia carceraria. Riesce persino ad avvicinare l’assassina nella sua cella. “Questa calma, questo aspetto malaticcio, questa espressione spenta di un essere chiuso in cattività, tutto ciò era stranamente toccante”, scrive.
Visto che a una settimana dal crimine non è ancora stato possibile risalire alla vera identità della donna, il Petit Parisien pubblica un identikit, disegnato sulla base delle informazioni fornite da un cameriere.
Trattata male
Nel contempo, il giudice istruttore ordina di fotografarla mentre indossa i vari capi di vestiario che ha con sé: una volta con un completo blu e pelliccia sintetica, un’altra in bianco con un bolero di pizzo e cappello, un’altra ancora in costume d’amazzone e con bombetta.
Ma quando le viene chiesto per la quarta volta di cambiarsi, la giovane si rifiuta categoricamente. Il giudice va su tutte le furie poiché deve assolutamente scoprire l’identità dell’assassina. La minaccia di usare la forza per farle indossare un altro capo d’abbigliamento, se necessario.
Le sue minacce sono però vane. E allora i poliziotti le strappano i vestiti di dosso, fino alla biancheria intima. Lei prende uno sgabello per difendersi. “È così dunque che si fa in Svizzera”, urla la giovane. “In una repubblica dove si dovrebbe essere più umani che in una monarchia!”.
Al che, il giudice istruttore perde completamente il controllo di sé. Prende la prigioniera e la spinge contro un muro. Lei gli sputa in viso e per due giorni si rifiuta di mangiare.
Vengono diffuse 2’500 fotografie e la polizia chiede aiuto alle forze di polizia europee.
Poco dopo arrivano i primi indizi. Alcuni uomini d’affari di Losanna hanno riconosciuto sulle foto la studentessa di medicina Tatiana LeontievaCollegamento esterno. La polizia di Ginevra indica che si tratta della figlia di un alto funzionario russo, che vive con la madre in un sobborgo di Ginevra e che intrattiene contatti con i rivoluzionari russi.
Giovane rivoluzionaria
Tatiana Leontieva, in effetti, non è una perfetta sconosciuta. Si è radicalizzata dopo aver assistito alla repressione sanguinosa di una manifestazione di lavoratori disarmati davanti al Palazzo d’inverno di San Pietroburgo nel 1905.
Tre mesi più tardi è sospettata di essere implicata nell’organizzazione di attentati contro il governo. La polizia ha trovato degli esplosivi nel suo cestino di cucito e l’ha rinchiusa nella famosa fortezza di Pietro e Paolo.
Suo zio, ciambellano dello zar, sfrutta la sua influenza per farla trasferire in un ricovero per malati mentali. Qualche mese dopo lascia la casa di cura e si trasferisce in Svizzera.
Nella Confederazione si fa notare per la sua intelligenza e il suo spirito rivoluzionario. A un professore che le fa notare come stia mettendo a repentaglio la carriera del padre, lei risponde dicendo: “130 milioni di russi da una parte, dall’altra mio padre. Non ho scelta”.
I giornalisti si perdono in congetture per spiegare questo omicidio. Alcuni attribuiscono la responsabilità al misterioso compagno scomparso la vigilia del crimine, altri danno la colpa “all’isteria rivoluzionaria”, una variante femminile della “follia politica” diagnosticata dallo psichiatra austriaco Richard von Krafft-Ebing in persone che “escogitano progetti originali per migliorare il mondo, ma che non sono in grado di concretizzare”, motivo per cui le persone decidono di ricorrere alla violenza.
È una tesi che porta acqua al mulino del padre di Tatiana. Con l’aiuto di esperti psichiatrici tenta di convincere il giudice istruttore che la figlia è “solo parzialmente sana di mente” e che è meglio rinchiuderla in un ospedale psichiatrico.
A metà ottobre 1906, Tatiana Leontieva è trasferita all’ospedale psichiatrico di Münsingen dove viene sottoposta ad esami. La giovane russa è contenta di poter spiegare ai medici che si batte per l’abolizione della proprietà privata e del matrimonio, poiché “l’amore sessuale è una questione puramente personale sulla quale sacerdoti e legislatori non hanno voce in capitolo”.
Gli esperti non le riconoscono alcuna “debolezza mentale” né “disturbi mentali”, ma una “crisi psicologica” che l’ha persuasa, come molti giovani russi, a lottare “con passione contro la situazione politicamente patologica del suo Paese”.
“Non ho troppi rimorsi”
Il 25 marzo 1907 si apre il processo tanto atteso presso il tribunale di Thun.
Tatiana Leontieva deve rispondere da sola delle sue azioni, poiché non è stato possibile rintracciare il suo complice, nonostante le intense ricerche. L’aula è stracolma. Sono presenti giornalisti provenienti da tutta l’Europa, curiosi, esuli russi e socialisti che ammirano “questa giovane donna che ama e odia” per la sua “energia” e che vogliono sostenere moralmente.
Tatiana Leontieva è pallida e emaciata, ma è comunque inamovibile. “Non rispondo a nessuna domanda che riguarda la mia vita privata”, ricorda all’inizio dei dibattimenti.
Con grande enfasi descrive il regno del terrore del ministro dell’interno Durnovo. “Rispondendo alle domande, la signorina Leontieva dà prova di un’energia rara, di un sangue freddo impressionante e di una notevole presenza di spirito”, scrive un giornalista. “La sua voce simpatica ha un tono quasi pauroso, mentre le sue risposte sono implacabili”.
In effetti, l’imputata è davvero impietosa. Quando le viene chiesto se è pentita di aver sbagliato persona, lei risponde che come socialista non ha “troppi rimorsi” d’aver eliminato un membro della società borghese.
La donna è intransigente anche nei confronti del giudice istruttore che lei accusa di “brutalità estrema”, come si legge pure sul New York Times. Il funzionario cerca di ribattere alle accuse, ma deve comunque ammettere che ha “forse usato un po’ la mano pesante”.
E quando il giudice istruttore nega che lei gli ha sputato addosso, Tatiana Leontieva chiede che venga ricostruita la scena “affinché le ritorni in mente”. Tra il pubblico si sentono urla di incitamento e l’atmosfera si surriscalda. Il presidente della corte ripristina l’ordine in aula e promette un’indagine disciplinare sull’incidente.
I contadini dimostrano clemenza
Il deputato nazionale socialista Alfred Brüstlein è l’avvocato difensore dell’imputata. Parla in dialetto bernese affinché i giurati, la maggior parte sono contadini della regione, lo possano seguire nella sua arringa.
Segue due strategie di difesa. Da una parte mette l’accento sull’ipersensibilità dell’accusata, sul suo “cuore d’oro” e sulla sua “anima compassionevole”, dall’altra denuncia la crudeltà dello Stato russo e trasforma questo omicidio in un classico tirannicidio.
L’arringa finale dura quattro ore. È un “vero monumento storico”, scrive con enfasi un giornalista che si chiede: “I contadini dell’Oberland bernese condanneranno senza pietà una donna che ha sacrificato tutte le sue relazioni private, così come fece WinkelriedCollegamento esterno, per aprire una breccia nel muro di ferro del nemico?”.
Gli agricoltori sono in effetti indulgenti nei suoi confronti. Anche se riconosciuta colpevole di omicidio, condannano Tatiana Leontieva a soli quattro anni di reclusione poiché tengono conto di alcune circostanze attenuanti e le riconoscono una scemata responsabilità. Due mesi dopo il verdetto, la stampa riporta che la condannata è impazzita e che è stata trasferita in un ospedale di Münsingen, nel canton Berna.
Tatiana Leontieva, la sola donna ad avere commesso un omicidio politico in Svizzera, rimane in clinica fino al suo decesso. Muore nel 1922, all’età di 39 anni, di tubercolosi, portandosi nella tomba i segreti di un crimine mai completamente chiarito.
Attentati in Svizzera
Ripercorrendo la storia della Svizzera si scopre che gli atti di violenza a sfondo politico nel Paese un tempo erano molto più frequenti di quanto si possa supporre oggi. Il primo attacco terroristico sul suolo elvetico fu commesso nel 1898 contro l’imperatrice Elisabetta d’Austria, che fu pugnalata dall’anarchico Luigi Luccheni. Sissi fu la prima vittima del terrore anarchico in Svizzera, ma non l’unica.
All’inizio del XX secolo la Svizzera fu teatro di una vera e propria ondata di violenza terroristica. Gli anarchici fecero irruzione in banche e nella caserma della polizia di Zurigo, cercarono di far saltare in aria dei treni, ricattarono degli industriali, compierono attentati dinamitardi e uccisero degli avversari politici.
La maggior parte dei responsabili proveniva dall’estero: russi, italiani, tedeschi e austriaci che avevano trovato asilo politico in Svizzera. Solo una minoranza degli autori era svizzera. La maggior parte di costoro era in stretto contatto con anarchici stranieri. In generale, tuttavia, causarono più orrore che danni. E a volte erano talmente dilettanti da farsi esplodere accidentalmente mentre costruivano le loro bombe.
Per la Svizzera, gli atti di violenza anarchici furono una sfida politica: il paese reagì con espulsioni e l’inasprimento delle leggi. Nella cosiddetta legge sugli anarchici del 1894, furono aumentate le pene per tutti i reati commessi con l’ausilio di esplosivi e furono resi punibili gli atti preparatori. Al contempo, però, la Svizzera rifiutò di inasprire le disposizioni legislative sull’asilo, che offrivano una generosa protezione ai perseguitati politici.
(Traduzione dal francese: Luca Beti)
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