Stagionale, uno statuto che risorge dalle ceneri
Reintrodurre lo statuto di stagionale per controllare meglio l’immigrazione e permettere nello stesso tempo a certi rami economici di disporre della manodopera necessaria. È quanto propone l’UDC nel quadro della sua iniziativa «contro l’immigrazione di massa». Un’ipotesi che fa venire i brividi a chi ha vissuto questa realtà sulla propria pelle.
«Per settori come la costruzione o l’agricoltura, dovremmo reintrodurre lo statuto di stagionale. Era un sistema molto buono. Sfortunatamente la politica l’ha dapprima indebolito, poi soppresso». «Con la nostra iniziativa, non vi sarebbe nessuna garanzia di insediamento, di ricongiungimento familiare o per una presa a carico da parte dell’assicurazione disoccupazione». Con queste dichiarazioni fatte in interviste con la NZZ am Sonntag e Le Temps tra fine novembre e inizio gennaio, il presidente dell’Unione democratica di centro (UDC, destra nazional-conservatrice) Toni Brunner ha riesumato una reliquia che sembrava ormai appartenere al passato.
Istituito all’inizio degli anni ‘30, questo statuto prevedeva – come il suo nome lo indica – un soggiorno limitato alla durata della stagione lavorativa. Ma non era questa l’unica particolarità del cosiddetto «permesso A»: le prestazioni delle assicurazioni sociali erano ridotte, i lavoratori non potevano né cambiare datore di lavoro né luogo di domicilio nel corso della stagione e il ricongiungimento famigliare era vietato.
Per far fronte al boom economico del dopoguerra, la Svizzera ha attinto a piene mani da questa manodopera: dal 1945 al 2002, quando lo statuto di stagionale è stato soppresso con l’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione delle persone tra Svizzera e Unione Europea, Berna ha infatti rilasciato oltre 6 milioni di permessi stagionali.
Luciano Turla, che incontriamo alla Casa d’Italia di Bienne, arriccia il naso quando gli menzioniamo i propositi di Toni Brunner. Oggi in pensione, questo ex muratore e capo cantiere di 69 anni originario della provincia di Brescia è arrivato in Svizzera per la prima volta nel 1960, all’età di 16 anni. Come stagionale, appunto.
Sottoproletariato dei Trenta gloriosi
Allora, un sistema «molto buono»? Essere stagionali, ricorda Luciano Turla, significava non avere praticamente nessuna protezione sociale. «Finché c’era bisogno di manodopera ci tenevano, poi se non occorrevamo più ci davano un calcio nel didietro e via. Se si veniva licenziati, bisognava tornarsene in Italia, dove non si aveva diritto alla disoccupazione, non si aveva diritto a niente».
Verso la fine della stagione, che per l’edilizia si concludeva generalmente ai primi di dicembre, poteva facilmente capitare di essere rispediti a casa con un preavviso di pochissimi giorni, poiché le condizioni meteorologiche non permettevano più di lavorare. Oppure, quando la stagione avrebbe dovuto riprendere, i datori di lavoro potevano decidere per lo stesso motivo di ritardare di un paio di settimane l’invio del contratto, senza il quale era impossibile entrare in Svizzera.
«I primi tempi come stagionale sono stati piuttosto brutti. I primi due anni, quando lavoravo a La Neuveville [a qualche chilometro da Bienne, nel canton Berna], avevo una camera in una casa vecchia. In inverno c’era un freddo cane, in estate una tale umidità…».
Contrariamente a molti suoi compatrioti, Luciano Turla ha avuto la fortuna di non dover vivere nelle baracche dove spesso venivano stipati gli operai italiani. «La stagione 1963 sono stato assunto da una ditta di Nidau. L’azienda aveva appena costruito un alloggio per gli operai. Era un lusso. Avevamo delle camere per tre persone. C’erano delle docce, una mensa».
«A Nidau – prosegue – il padrone ci trattava bene. Del resto ho lavorato 25 anni per questa ditta. Con la gente del posto era un’altra storia. Durante il periodo delle iniziative Schwarzenbach [ndr: contro l’inforestierimento] ce ne dicevano di tutti i colori. Quando uscivamo potevamo andare solo nei ristoranti dove c’erano italiani. Nei ristoranti svizzeri non si poteva praticamente entrare, ti fulminavano con lo sguardo».
Amministrazione kafkiana
A marcare generazioni di stagionali sono state soprattutto le beghe amministrative con cui erano confrontati. «Nel 1965 sono rientrato in Italia per fare il militare e sono tornato nell’aprile del 1966, sempre come stagionale. Nel 1968 mi sono sposato con una ragazza italiana, che aveva il permesso di domicilio. In ottobre abbiamo avuto un bambino. Mia suocera voleva che potessi rimanere almeno per le vacanze di Natale. Ha scritto a Berna e mi hanno risposto che potevo rimanere solo fino al 23 dicembre, ma che poi dovevo uscire dalla Svizzera. Sono così dovuto rientrare in Italia, per poi ritornare in gennaio, dapprima come turista, poi come stagionale», ricorda Luciano Turla.
Nel 1970 ottiene il tanto agognato «permesso B», l’autorizzazione di dimora annuale che dà diritto, tra le altre cose, alle assicurazioni sociali e al ricongiungimento famigliare. «Da quel momento le cose sono andate meglio, era più facile», sottolinea.
Cristina Inacio Denti, di origine portoghese, ha dal canto suo vissuto fino all’età di nove anni lontana dal padre. Come stagionale, il genitore non poteva infatti portare la sua famiglia in Svizzera. «È arrivato a Ginevra nel 1970, quando aveva 35 anni e già una grande esperienza di muratore alle spalle, anche se poi qui ha iniziato come semplice manovale. Per avere un permesso B, bisognava lavorare quattro stagioni consecutive [ndr: cinque fino all’inizio degli anni ‘70]. Era molto complicato. Bastava perdere alcuni giorni, magari perché la ditta ti licenziava prima della fine della stagione, e tutto il computo andava a farsi benedire. C’era una tale paura di mancare anche un solo giorno, che mio padre andava a lavorare anche quando era malato, ciò che una volta gli è costato un ricovero in ospedale per una polmonite».
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I bambini nell’armadio
Vita da clandestini
Nel 1982, riesce finalmente a totalizzare le quattro stagioni consecutive. «Ci ha fatti venire in ottobre. Pensava che sarebbe stato facile. Solo che non bastava avere il permesso B. C’era tutta una serie di altre condizioni, tra cui quella di avere un alloggio adeguato, con al massimo due bambini dello stesso sesso per camera. Eravamo sei fratelli e sorelle e mio padre viveva in un piccolo appartamento. Già all’epoca a Ginevra era difficilissimo trovare un alloggio abbastanza spazioso per una famiglia».
Di fatto, Cristina e la sua famiglia vivono per oltre un anno in clandestinità. «Per evitare i controlli, dovevamo uscire la mattina e andare da amici. Dovevamo farci notare il meno possibile, giocare in silenzio. Ricordo ancora che mio padre ci sgridava se facevamo il minimo rumore».
Nel novembre 1983, riescono finalmente a trovare un appartamento più grande, anche se ancora non abbastanza per dichiarare tutti i componenti della famiglia. «Uno dei miei fratelli ha potuto essere regolarizzato solo più tardi», spiega.
Questo periodo difficile non è stato superato senza traumi, rileva Cristina Inacio Denti, che oggi ha 40 anni, è maestra di scuola elementare a Ginevra e ha dedicato il suo lavoro di diploma universitario proprio al tema dell’immigrazione portoghese. «Quando ero giovane ho sempre cercato di farmi discreta, in un certo senso di fare silenzio. Non è una caratteristica solo mia, ma è quella di moltissime persone che hanno vissuto quello che ho vissuto io. Ciò mostra fino a che punto abbiamo integrato questa esperienza. Se osservo i figli di mia sorella, mi rendo conto che loro iniziano veramente a sentirsi parte integrante della società svizzera. Ci sono volute tre generazioni».
Quando le facciamo presente che oggi c’è chi vorrebbe reintrodurre questo statuto, le si accappona la pelle. «Se le condizioni fossero le stesse, penso che sarebbe contrario ai diritti umani e ai diritti del bambino. Significherebbe far tornare alcune categorie di lavoratori in una precarietà terribile».
Lo statuto di stagionale, istituito dalla legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri del 1931, è da inserire nel quadro di una politica migratoria volta a garantire la flessibilità necessaria ai bisogni dell’economia e nello stesso tempo a combattere il cosiddetto «inforestierimento» della Svizzera.
A far capo ai lavoratori stagionali erano soprattutto settori come l’edilizia, l’industria alberghiera e l’agricoltura.
Nel 1963, per limitare l’afflusso di manodopera estera, le autorità svizzere introdussero una quota massima di stagionali per cantone.
La quota degli stagionali tra i lavoratori stranieri attivi registrò tendenzialmente un calo: 26,5% nel 1957, 19,7% nel 1967, 10,3% nel 1977, 13,9% nel 1987. Nel 1967 il loro numero era pari a 153’510 (di cui 83,3% Italiani), cifra scesa nel 1977 a 67’280 (37% italiani, 26,8% iugoslavi, 23,3% spagnoli) per aumentare nuovamente nel 1987 a 114’640 (30,3% iugoslavi, 28,1% portoghesi). Nel 1997 gli stagionali erano ancora 28’000.
L’abolizione di questo statuto precario ha faticato a trovare sostenitori, anche a sinistra. Nel 1981 l’iniziativa popolare «Essere solidali, per una nuova politica degli stranieri», che proponeva appunto di abolirlo, fu bocciata dall’83,8% dei votanti.
Lo statuto fu soppresso solo nel 2002, con l’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Unione Europea.
Fonte: Dizionario storico della Svizzera
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