Come gestire il rilascio di detenuti incarcerati per terrorismo?
Il primo dei tre uomini condannati in marzo per aver pianificato un attacco terroristico in Svizzera avrebbe già dovuto essere scarcerato. Ma l'iracheno è stato posto in detenzione in vista dell'espulsione. Cosa succederà in seguito è oggetto di un intenso dibattito in seno ai servizi segreti svizzeri e al mondo politico.
Poco dopo la sentenza emessa in marzo, il procuratore generale della Confederazione Michael Lauber aveva riconosciuto che le autorità erano confrontate con un dilemma: cosa fare dei tre uomini condannati per terrorismo una volta scontate le pene?
«Da una parte, le persone condannate per terrorismo non possono avere il permesso di rimanere in Svizzera. Dall’altra, non possiamo mettere a repentaglio la tradizione umanitaria della Svizzera. Ora dobbiamo riflettere sulla questione e fornire delle risposte appena questi individui verranno rilasciati dalla prigione», aveva detto qualche tempo fa alla radio svizzera di lingua tedesca SRF.
«Chi vuole riprendersi dei terroristi? Nessuno. Ci sono quindi poche possibilità che vengano estradati»
Alain Mermoud, consulente di intelligence
Quella di quest’anno è stata la prima condanna pronunciata in Svizzera per attività legate all’autoproclamato Stato islamico (Isis). Quattro iracheni, arrestati nel 2014, sono stati processati con l’accusa di pianificare un attentato. Tre sono stati giudicati colpevoli, mentre il quarto è stato prosciolto dall’accusa di essersi recato in Siria per fornire apparecchi radio a membri dell’Isis.
Il Tribunale penale federale di Bellinzona (TPF) ha inflitto 4 anni e 8 mesi di carcere a due imputati e 3 anni e 6 mesi al terzo. Quest’ultimo, che ha scontato i due terzi della pena, avrebbe dovuto essere rimesso in libertà il 21 luglio: infatti, secondo i giudici del TPF, non ci sarebbe rischio di nuove infrazioni.
Tuttavia, le competenti autorità cantonali argoviesi hanno deciso di prolungare la detenzione, fino al 30 ottobre, in vista dell’espulsione. Una decisione intervenuta in seguito a un decreto di espulsione e di divieto di ingresso in Svizzera a tempo indeterminato emanato dall’Ufficio federale di polizia (Fedpol), il quale lo considera ancora un pericolo per la sicurezza della Confederazione.
L’uomo – un 31enne padre di due figli – può inoltrare ricorso al Dipartimento federale di giustizia e polizia e successivamente al governo federale.
Quanto agli altri due iracheni condannati, secondo i giudici del TPF dovrebbero essere rilasciati l’anno prossimo.
La situazione è molto complessa e delicata e sugli sviluppi regna l’incertezza. Alain Mermoud, consulente di intelligence dell’esercito svizzero, intravvede tre possibili scenari: l’estradizione dei tre uomini in Iraq, l’apparizione di nuove prove – che è quello che sostiene Fedpol nel suo decreto relativo al 31enne – per tenerli dietro le sbarre, oppure la liberazione in Svizzera sotto stretta sorveglianza.
«Chi vuole riprendersi dei terroristi? Nessuno. Ci sono quindi poche possibilità che vengano estradati», osserva Alain Mermoud. La Svizzera, prosegue, non dispone di alcun accordo di estradizione con l’Iraq, un paese insicuro in cui le persone non possono essere rispedite senza mettere in pericolo le loro vite. Se non vi sono nuove prove che giustificano la necessità di tenerli in carcere, fa notare Alain Mermoud, mancano le basi legali per prolungare la detenzione. Per questi motivi, «la probabilità più elevata è che vengano liberati».
«Hanno saldato il loro debito con la società. È il principio che abbiamo nella nostra legislazione. Dobbiamo però tenerli d’occhio», sottolinea l’esperto di intelligence.
Sorvegliarli, ma come?
In Svizzera, i servizi segreti sono autorizzati a sorvegliare degli individui tramite strumenti elettronici se c’è motivo di credere che possano rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale.
Sebbene i detenuti siano considerati legalmente riabilitati dopo aver scontato la pena, «non significa che non possono più costituire una minaccia per la sicurezza», fa notare Isabelle Graber, responsabile della comunicazione del Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC).
«A dipendenza del caso, il SIC può sorvegliare le persone che rappresentano una minaccia per la Svizzera durante o dopo l’espiazione della pena», afferma a swissinfo.ch.
Auto-vigilanza
A differenza di altri paesi europei, che fanno ricorso ai braccialetti elettronici per tener sotto controllo gli individui ad alto rischio, la Svizzera non autorizza tale pratica. La nuova legge sui servizi segreti, che conferisce maggiori capacità di sorveglianza al SIC, è quindi assolutamente necessaria, sostiene Alain Mermoud.
In base alla legge approvata lo scorso anno dal parlamento, i servizi di intelligence dispongono di un arsenale più ampio per sorvegliare le comunicazioni private. Contro la nuova legge è però stato lanciato con successo un referendum e l’ultima parola spetterà al popolo svizzero in occasione delle votazioni federali di settembre.
Nel frattempo, Alain Mermoud ritiene che le autorità debbano «pensare fuori dagli schemi», ad esempio coinvolgendo la comunità e facendo ricorso all’auto-vigilanza.
«Il governo potrebbe pagare degli informatori per tener d’occhio le persone ad alto rischio. Lo stereotipo è l’anziana signora nascosta dietro alla tenda. Ma forse è questa la miglior possibilità che abbiamo», afferma, puntualizzando che si tratta semplicemente di un’idea e non della politica del governo elvetico.
Personalmente, prosegue, preferirebbe che i tre iracheni «avessero degli incentivi per lasciare il paese di loro volontà». Alain Mermoud non specifica però quali potrebbero essere questi incentivi.
Europa meno severa degli Stati Uniti
La questione di cosa fare con i terroristi imprigionati è un tema scottante in Europa, dove la pena detentiva per atti di terrorismo pronunciata nei paesi membri dell’Ue è stata in media di 6 anni nel 2014, contro i 10 nel 2013, secondo Europol.
«Malgrado l’intenso lavoro dei servizi segreti e le severe leggi contro il terrorismo, i terroristi europei finiscono spesso in prigione per meno di 10 anni per reati che negli Stati Uniti verrebbero invece puniti con 20 anni di carcere o con l’ergastolo», fa notare il giornalista Sebastian Rotella in un articolo di ProPubblicaCollegamento esterno in cui parla delle «prigioni europee con le porte girevoli».
Durante il processo agli iracheni, la Procura federale aveva chiesto una pena di 7 anni e mezzo per due imputati. Alla fine, i 4 anni e 8 mesi stabiliti dalla corte sono inferiori alla media europea.
Infliggendo lunghe pene detentive, i governi mandano un messaggio forte che il terrorismo non viene tollerato, indica Christina Schori Liang, consulente del Centro per la politica di sicurezza di Ginevra. Alcune ricerche approfondite, fa però notare, mostrano che il tempo trascorso dietro alle sbarre può avere conseguenze indesiderate.
I recenti attacchi terroristici a Bruxelles e a Parigi hanno influenzato «nel modo più assoluto» il dibattito sulla durata della detenzione, ma «il dibattito più grande concerne quello che succede in prigione» in merito al reclutamento dei terroristi, sottolinea.
Le menti degli attacchi di Parigi si sono probabilmente radicalizzate in prigione, ritiene Christina Schori Liang. Una recente edizione della rivista online dello Stato islamico ha d’altronde menzionato che il tempo trascorso in prigione incoraggia la causa dell’organizzazione in quanto le permette di diffondere il suo messaggio.
“Compromesso svizzero” sui terroristi
Tutto questo pone le autorità di fronte a una questione ancor più spinosa quando si tratta di gestire i detenuti incarcerati per terrorismo.
In Svizzera, il raggruppamento del servizio che si occupava di questioni riguardanti l’estero con quello strategico di intelligence ha dato luogo a un contrasto tra quadri giuridici, afferma Christina Schori Liang. «Inoltre, le autorità svizzere sorvegliano le attività sulle reti sociali di circa 400 possibili terroristi che potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza. Questo numero è costantemente in crescita e alla fine risulterà difficile stare al passo coi tempi».
Alain Mermoud concorda che le strutture esistenti in Svizzera, in particolare il fatto che ogni autorità cantonale lavora in modo autonomo, «possono essere un ostacolo» quando si tratta di comunicare e di lottare contro le minacce terroristiche.
In merito alla questione di come gestire i terroristi che hanno scontato la pena, Alain Mermoud afferma comunque di «essere fiducioso che la Svizzera troverà un compromesso elvetico. Nulla di estremo, ma una via di mezzo con un po’ di sorveglianza».
Traduzione dall’inglese di Luigi Jorio
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