Swiss Made? Sì, ma (anche) grazie a mani straniere
Tra i fiori all’occhiello dell’economia svizzera, l’industria orologiera elvetica è cresciuta e si è affermata anche grazie al ricorso alla manodopera straniera e in particolare italiana. Intervista allo storico Francesco Garufo.
«In Italia per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, stragi e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace, cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù». A cucù certamente no, poiché si tratta di un’invenzione tedesca. Orologi invece sì e quali orologi, si potrebbe far notare al sarcastico Orson Welles, che pronunciò la famosa frase ne Il terzo uomo.
Polemiche a parte, se gli orologi svizzeri sono ormai entrati a pieno titolo nell’immaginario collettivo, lo si deve anche alla numerosa manodopera straniera, italiana in primis, a cui le aziende orologiere svizzere hanno attinto a piene mani a partire dal secondo dopoguerra e soprattutto dalla fine degli anni ‘50. Questo settore è riuscito a rimanere concorrenziale anche grazie ai lavoratori stranieri, o meglio alle lavoratrici, osserva Francesco Garufo, ricercatore all’Università di Neuchâtel. Francesco Garufo ha appena concluso una tesi di dottorato incentrata sul tema della migrazione nell’industria orologiera tra il 1930, quando il governo federale inizia a intervenire per rafforzare il cartello orologiero, e il 1980, alla fine della crisi che rimodella completamente il settore.
swissinfo.ch: Qual è il peso della manodopera straniera nel settore orologiero?
Francesco Garufo: Sino alla metà degli anni ’50 l’industria orologiera cerca di limitare l’immigrazione. In seguito, soprattutto a partire dall’inizio degli anni ’60, fa sempre più spesso capo alla manodopera straniera. Nei primi anni ’70 su 90’000 operai, circa 20’000 sono stranieri.
In un contesto in cui la concorrenza internazionale diventa sempre più forte, l’orologeria deve poter crescere per non perdere parti di mercato. La crescita passa anche dal contenimento dei costi di produzione e quindi dall’assunzione di lavoratori stranieri – o meglio lavoratrici – che erano pagati meno.
swissinfo.ch: Per quali ragioni fino alla metà degli anni ’50 si è cercato di frenare l’immigrazione?
F. G.: Uno dei principali argomenti invocati era legato al trasferimento tecnologico. Il timore era che la manodopera straniera, una volta formata, ripartisse nel suo paese facendo poi concorrenza all’orologeria svizzera. È un argomento che funziona piuttosto bene nell’ambito del cartello orologiero. Uno degli obiettivi del cartello, formatosi a partire dagli anni ’30 grazie anche all’intervento statale, era infatti di evitare lo sviluppo di una concorrenza estera. L’altro era di limitare le dimensioni dell’apparato di produzione, per evitare troppi fallimenti in caso di crisi.
Vi è poi una seconda ragione, legata ai sindacati. Dal 1937 è in vigore la pace del lavoro e quindi, in un ambito di concordanza, nei negoziati col padronato i sindacati possono cercare di limitare un po’ la concorrenza sul fronte dei salari.
swissinfo.ch: Questo tentativo di frenare l’immigrazione è proprio all’orologeria?
F. G.: Sì, l’orologeria si trova in effetti a controsenso rispetto al resto dell’economia. Del resto, quando l’industria orologiera decide di porre fine a queste limitazioni, è lo Stato che nel 1963 comincia a prendere delle misure per contenere il movimento migratorio. A partire da questi anni si inizia a parlare di surriscaldamento dell’economia. Si arriva a un punto in cui la crescita pone problemi, in particolare in termini di infrastrutture. Gli stranieri sono considerati parte di questo problema di crescita esagerata. È in questo contesto che nascono anche i movimenti xenofobi.
L’orologeria riesce comunque a sviare queste limitazioni, ottenendo che dal 1966 i frontalieri non facciano più parte dei contingenti di manodopera straniera. Ed è appunto da questi anni che i lavoratori frontalieri tendono a sostituirsi a quelli provenienti da più lontano e dall’Italia in particolare.
swissinfo.ch: Quali erano le strategie di reclutamento in Italia?
F. G.: Le ditte più importanti utilizzavano la via ufficiale, ossia inoltrando domanda allo Stato italiano.
Nel caso della società Tissot, che ho potuto studiare da vicino, la strategia si basa soprattutto sui contatti con italiani già in Svizzera. Esaminando gli archivi di questa ditta, mi sono ad esempio reso conto che vi erano molte ragazze che venivano da Roncola, un paese di 300 anime nel Bergamasco. Nel 1955, il responsabile del personale della ditta aveva detto a un muratore di sua conoscenza che cercava delle operaie. Lui aveva fatto venire la figlia, la nipote, poi l’amica della nipote e così via. Una volta che c’era un alloggio, si creavano dei flussi migratori. Nel caso di Roncola, ho potuto seguire su 30 anni il percorso di 322 persone che avevano lasciato il villaggio. La metà è partita per altre regioni del Nord Italia. Le altre sono andate all’estero, quasi tutte nell’arco giurassiano.
Vi era poi una via di mezzo, ossia ditte che facevano direttamente appello ai parroci o ai sindaci di questi paesini di montagna italiani.
swissinfo.ch: Quali erano le motivazioni?
F. G. La questione economica era naturalmente importante. Ma non era l’unica. Nelle interviste che ho potuto realizzare con alcune donne, è emerso anche il desiderio di emancipazione. Inoltre era più facile raggiungere una sorella o una cugina che già abitavano in Svizzera, piuttosto che andare a Milano senza nessuna una rete sociale. Il lavoro domestico, al quale erano destinate queste donne nel caso in cui fossero rimaste a lavorare in Italia, era inoltre scarsamente considerato. Il lavoro industriale – anche se magari duro e ripetitivo – era invece valorizzato, poiché rappresentava la modernità.
swissinfo.ch: Perché soprattutto donne?
F. G.: Perché non entravano in concorrenza col personale svizzero. L’argomento era che le donne lavoravano per poco tempo, che il loro lavoro era complementare a quello del marito, che non acquisivano particolari qualificazioni e che quindi non c’era pericolo di trasferimento tecnologico.
Inoltre avevano salari molto più bassi e ciò valeva anche per le donne svizzere. Del resto basta guardare le statistiche dell’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro. Vi era una media dei salari per gli operai qualificati, un’altra per gli operai semi e non qualificati e una per le donne.
swissinfo.ch: Si tratta quindi soprattutto di manodopera poco qualificata…
F. G.: Sì, perché con l’introduzione di metodi di fabbricazione sempre più automatizzati era necessario personale senza particolare formazione. Studiando gli archivi della ditta Tissot, ho potuto constatare che su oltre 300 italiani e italiane assunti tra il 1966 e il 1974, neanche il 10% erano qualificati.
La manodopera qualificata era comunque ancora necessaria, ma veniva reclutata appena al di là della frontiera, in Francia.
swissinfo.ch: In che modo il ricorso alla manodopera straniera ha inciso sull’industria orologiera?
F. G.: Ha sicuramente permesso di trasformarla, favorendo l’automazione. Per la manodopera locale, formatasi in maniera tradizionale, lavorare su catene di montaggio non era per nulla interessante e valorizzante. Ricorrendo alle lavoratrici straniere è invece stato possibile effettuare questi cambiamenti, che hanno permesso all’orologeria svizzera di rimanere competitiva.
Al pari dei cartelli che hanno contraddistinto altri settori industriali elvetici, quello orologiero si è costituito progressivamente dopo la Prima guerra mondiale, quando la cessazione delle comande militari segna la fine di un periodo di forte crescita.
Lo Stato interviene nell’orologeria nel 1931, creando la Società generale dell’orologeria svizzera, sorta di holding che controlla finanziariamente la fabbricazione degli abbozzi (‘ébauches’) e di altri componenti, come bilancieri e spirali. In questo modo, le autorità possono controllare il mercato.
Oltre a regolare i prezzi, gli obiettivi del cartello erano di mantenere un equilibrio tra i diversi attori, definendo le attività di ognuno di loro, e di controllare le esportazioni, in particolare per evitare trasferimenti tecnologici.
Il cartello comincia ad essere progressivamente smantellato dall’inizio degli anni ’60, sulla scia del processo di liberalizzazione in corso a livello internazionale.
L’industria orologiera svizzera rappresenta la terza industria d’esportazione elvetica, dopo le macchine e la chimica. È impiantata principalmente nei cantoni di Neuchâtel, Berna, Ginevra, Soletta, Giura e Vaud.
Il settore ha raggiunto l’apice alla fine degli anni ’60, con circa 90’000 dipendenti impiegati in più di 1’500 imprese.
All’inizio degli anni ’70, l’industria orologiera ha conosciuto una profonda crisi, in concomitanza con l’arrivo degli orologi al quarzo dall’Asia.
Nella metà degli anni ’80, le 500-600 imprese rimaste impiegavano circa 30’000 persone.
Il rilancio è avvenuto in un primo tempo grazie alla produzione di massa e in particolare agli orologi prodotti dalla Swatch, mentre nell’ultimo decennio a fare da traino sono stati soprattutto gli orologi di lusso.
Nel 2000, i lavoratori attivi nell’industria orologiera erano 37’000 e le ditte 575. Nel 2008 i dipendenti del settore erano invece 53’300 (629 ditte); a causa della crisi, l’anno successivo è stata registrata la perdita di 4’000 posti di lavoro (e di 20 aziende), perdita compensata nel 2010.
In conformità con gli standard di JTI
Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative
Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.
Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.