Tra Valtellina e Val Poschiavo: l’epopea del contrabbando
Il contrabbando, un fenomeno che ha segnato le regioni di frontiera per secoli. Oggi, in un'epoca in cui i confini tra gli stati europei perdono d'importanza, la sua storia è diventata una questione di identità.
Sono cresciuto a Brusio, un paese a pochi chilometri dal confine con l’Italia, nel cantone dei Grigioni. Quando ero bambino, l’aria in paese profumava di caffè, per il fumo denso che usciva dai camini di sei o sette torrefazioni.
Da lì, i sacchi di caffè erano condotti lungo i fianchi della montagna con le jeep, i cavalli, i muli, le teleferiche di fortuna. Ad attenderli c’erano decine di contrabbandieri italiani, pronti a trasportarli illegalmente in Valtellina.
Per la Svizzera, tutto era perfettamente legale. Anzi, a Berna avevano anche trovato un nome per tutto questo: «esportazione due». Non è dato di sapere se a chi lo inventò scappasse almeno un po’ da ridere, al momento di idearlo.
Un fenomeno moderno
Nel corso di tutta l’età moderna, la Valtellina e la Valchiavenna erano state soggette alla dominazione dello Stato delle Tre Leghe, l’antico cantone dei Grigioni. Pur nella loro posizione subordinata, le comunità locali avevano goduto di ampia autonomia, anche in ambito commerciale.
Con il distacco della Valtellina dai Grigioni nel 1798, territori che fino ad allora avevano intrattenuto intensissime relazioni economiche e umane si trovarono divisi da un confine sorvegliato dai funzionari di uno Stato percepito come estraneo alla realtà locale.
Forme di contrabbando erano esistite nell’area valtellinese già in Età moderna, soprattutto lungo la frontiera con il Ducato di Milano. La nuova situazione nata alla fine del XVIII secolo rese però il fenomeno endemico. Lungo tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, un ingente quantitativo di merci – sale e tabacco dapprima, riso, caffè e sigarette poi – attraversò illegalmente le frontiere, in un senso o nell’altro.
Il contrabbando fu, in un certo senso, il corrispettivo nell’arco alpino del brigantaggio meridionale, una forma di ribellione che affondava le radici nell’insofferenza delle popolazioni locali per la legislazione doganale degli stati nazionali e nella loro percezione del confine come naturale area di scambio e che si era sviluppato in assenza di sbocchi economici alternativi. Il contrabbando ebbe anche i suoi episodi di violenza e i suoi morti, sia fra gli spalloni, sia fra le guardie di confine.
L’epoca del riso
Nell’Ottocento e all’inizio del Novecento, le merci contrabbandate furono soprattutto sale e tabacco, generi importati illegalmente dalla Svizzera verso l’Italia. La stessa dinamica si ripropose dopo la Seconda guerra mondiale, con le sigarette e il caffè. Durante la guerra invece, il flusso di merci cambiò direzione.
«Il crollo della lira nel corso della guerra indusse la popolazione di frontiera italiana a importare in Svizzera tutte le merci possibili, per ottenere in cambio dei franchi», spiega lo storico Adriano Bazzocco. «Il fenomeno riguardò soprattutto il riso, perché c’era una forte domanda in Svizzera, ma anche altre merci».
«Era come un mercato, su a Viano (una località di confine in Val Poschiavo, a 1200 metri di altitudine, NdR)», ricordava anni fa Domenic Gisep, guardia di confine svizzera in Val Poschiavo tra il 1940 e il 1944. «Si potevano comprare riso, macchine da scrivere, fisarmoniche, entrava di tutto».
Insieme alle merci dopo l’8 settembre 1943 giunsero anche persone, profughi ebrei, militari italiani, prigionieri di guerra evasi. «Per i contrabbandieri accompagnare i profughi in cambio di soldi era parte del loro lavoro. Qualcuno lo fece certo anche per motivi ideali, ma per la maggior parte di loro si trattava di una naturale estensione della loro attività», afferma Adriano Bazzocco
La fine degli spalloni
Quando bambino, nei primi anni Settanta, annusavo il fumo delle torrefazioni, gli «anni del caffè» stavano ormai volgendo al termine. Con loro finiva anche l’ultima stagione di una storia secolare: quella degli spalloni, del contrabbando ‘tradizionale’ sui sentieri di montagna, basato su merci dal valore aggiunto relativamente limitato, il cui trasporto illegale richiedeva una manodopera numerosa.
Le regioni di confine pullulano di storie sui contrabbandieri, figure a metà strada tra i Robin Hood della ‘povera gente’ e i furbi e temuti imprenditori di frontiera. Ciò che venne dopo fu un’altra cosa, più prossima alla criminalità organizzata, più ricca e violenta, senza più il radicamento sociale che aveva caratterizzato la storia del contrabbando in queste aree per quasi duecento anni. Per i lettori italiani, «La terra della mia anima» di Massimo Carlotto può dare un’idea di quel che avvenne in quegli anni.
«Fin dall’immediato dopoguerra esistevano alternative economiche al contrabbando. La Svizzera offriva molte possibilità di lavoro per i frontalieri. Ma per alcuni decenni l’attività illegale continuò ad attrarre giovani insofferenti alla disciplina di fabbrica, affascinati dallo status sociale del contrabbandiere», osserva lo storico ticinese Adriano Bazzocco.
«La svalutazione della lira negli anni Settanta erose i margini di guadagno del contrabbando tradizionale, mettendovi fine. Una piccola minoranza di contrabbandieri venne tuttavia assoldata da organizzazioni criminali, in virtù della loro esperienza, per attività che richiedevano poco personale, come il traffico di valuta o di droga».
Da fenomeno di massa, socialmente accettato, il contrabbando divenne un’attività riservata a pochi professionisti dell’illegalità, legati più o meno strettamente alla criminalità organizzata. Ma questa è un’altra storia, di cui si parla poco nelle regioni di frontiera.
swissinfo, Andrea Tognina
Domenic Gisep fu guardia di confine a Viano tra il 1940 e il 1944. In un’intervista concessami nel 1999, mi raccontò numerosi aneddoti sulla sua attività a ridosso della frontiera tra Val Poschiavo e Valtellina.
«Don Felicissimo era il parroco di Viano. Si recava spesso oltre confine, a Tirano, a Roncaiola, a Baruffini. Una volta lo incontrai quando stava tornando in Svizzera. Sapevo che avevano appena macellato un maiale. Di certo nascondeva delle salsicce sotto la toga. Ma non dissi niente. Che avrei dovuto farmene delle sue salsicce?»
«Una volta mi recai a Tirano vestito con l’uniforme di un brigadiere italiano. L’esercito svizzero voleva sapere quali truppe tedesche stazionassero a Tirano. Un amico brigadiere mi prestò la sua uniforme e la sua tessera. Mentre stavo rientrando mi fermai a Baruffini e fui invitato da un contrabbandiere a bere un caffè. Una bambina mi vide e disse ‘Ma quello è il Gisep’. Me ne andai in fretta; se i contrabbandieri avessero capito che ero travestito, sarebbero stati guai».
«Ricordo che un contrabbandiere trasportò fino a Viano i trenta volumi dell’Enciclopedia Treccani. Erano per il professor Giovanni Luzzi, il traduttore in italiano della Bibbia, che allora era pastore a Poschiavo. Più tardi Luzzi me li regalò. Mi hanno seguito per anni, da un posto di frontiera all’altro».
«A Viano da un contrabbandiere ho comprato anche una fisarmonica. E ho cominciato a prendere lezioni di musica. Ma dovevo farmi tre ore a piedi per recarmi dal maestro e allora dopo qualche tempo ho smesso».
Massimo Mandelli e Diego Zoia, La carga. Contrabbando in Valtellina e Valchiavenna, Sondrio, L’officina del libro, 1998 (saggio storico).
Massimo Lardi, Dal Bernina al Naviglio, Coira/Locarno, PGI/Armando Dadò, 2003 (romanzo).
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