Tragedie e destini nello specchio della giustizia
La tragica morte di Damiano Tamagni, il giovane ticinese ucciso un anno fa in una notte di Carnevale, rivive nell'aula penale di Locarno, in un clima di condizionamento sociale e di inevitabile tensione.
La rievocazione di quella notte da incubo in cui a Damiano Tamagni è stata strappata la vita, si è consumata e si consuma in modo diverso al di qua e al di là dell’invisibile ma pesante frontiera che separa la famiglia della vittima, gli autori del letale pestaggio e i loro familiari.
Tra un imputato e sua madre, uno scambio molto intenso con lo sguardo al momento dell’ingresso in aula. Pochi secondi, un battito di ciglia, perché gli accusati devono guardare dritto negli occhi colui che rappresenta la giustizia, il presidente della Corte delle Assise criminali Mauro Ermani.
Nell’angusta aula penale di Locarno c’è una tensione sorda e profonda. C’è soprattutto negli animi. Nelle voci soffocate dal dolore, dallo smarrimento, dalla rabbia. Negli sguardi che non si vogliono incrociare, che rimangono fissi, o persi, alla ricerca di un’impossibile consolazione.
Ma in quell’aula penale c’è anche, è vero, molta compostezza. Come nella mamma di Damiano, statuaria nella sua sofferenza, che con un nodo in gola segue il processo. Ascolta il giudice quando incalza gli imputati con le sue domande sferzanti. Ascolta, ammutolita e affranta. Ascolta e rivive – come se i colpi li avesse ricevuti lei – le ultime ore di vita di suo figlio. E poi con le mani si copre il volto. Un vero calvario.
Domande senza risposta e incredulità
Fuori dall’aula, amici, parenti e gente comune fanno la coda ogni mattina per potere entrare a seguire il processo. Se la prendono con chi non ha avuto il buon senso di pensare subito ad un’aula più grande, adatta a garantire la pubblicità – e non la spettacolarizzazione – del processo penale, uno dei pilastri dello Stato di diritto. L’auspicio, come chiesto da uno degli avvocati della difesa, Luca Marcellini, è dunque la formulazione di “un giudizio esemplare e non di una pena esemplare”.
Le persone parlano tra di loro. Commentano l’assurda morte di Damiano, l’inaccettabile e gratuita violenza con la quale gli è stata tolta la vita. E non c’è pace. “Non ci può essere pace – dice a swissinfo un uomo – per episodi come questi. Ma dove siamo finiti? In che mondo viviamo”? Nessuno, a parte un caso isolato, parla di vendetta, né di resa dei conti. Ma la lacerazione tra svizzeri e stranieri è in realtà molto più profonda di quanto non emerga in superficie.
“Una volta non era così” racconta un altro signore, calmo e sconsolato. “C’è chi faceva il gradasso per darsi importanza, c’erano quelli delle cafonate. Si, c’erano i casini e qualche rissa e i giovani se le davano anche di santa ragione. Ma mai s’era vista tanta cattiveria gratuita”, facendo pacatamente allusione ad una cultura della violenza sempre più diffusa.
Colpisce, inoltre, la grande maturità degli amici di Damiano, che nel loro percorso di dolore non si chiudono nei pregiudizi, non vogliono sentire parlare di giustizia sommaria. E poi c’è Don Samuele, lo zio di Damiano, che si augura che questo processo sia educativo per tutti, non solo per gli imputati.
Ricucire lo strappo nel fragile tessuto sociale
Al di là dell’estrema gravità dei fatti, al di là di una sentenza che possa rendere giustizia a Damiano Tamagni, molti sono gli interrogativi sulla profondità delle cicactrici nel tessuto sociale. Cosa aspettarsi? Lo abbiamo chiesto al giornalista Davide Martinoni, cronista a laRegioneTicino per il Locarnese, che ha seguito il caso Tamagni dalle prime drammatiche ore. E con grande etica, personale e professionale, si è sempre rifiutato di partecipare al linciaggio mediatico.
“Nei primi due giorni di dibattimento – racconta Davide Martinoni – mi ha colpito la compostezza con cui i parenti degli accusati hanno seguito i lavori della Corte, nonostante fra le famiglie degli imputati vi siano situazioni irrisolte riguardo alle posizioni degli imputati e le responsabilità di ognuno rispetto agli altri.
“Mi colpisce – aggiunge il giornalista – la dimostrazione di civiltà e di rispetto del dolore altrui di tutte le parti coinvolte, fra le quali spiccano i genitori di Damiano, addirittura eroici nella gestione del loro strazio”. Questo quadro di rispetto reciproco è, secondo il cronista, la risposta migliore al vergognoso battage mediatico condotto dal “Mattino della domenica” (e in parte dal Blick) subito dopo i fatti.
“La possibilità di una convivenza in aula fra i parenti delle vittime e l’entourage di Damiano (parenti, amici, membri della Fondazione a lui intitolata) – sottolinea Davide Martinoni – è di conforto, rispetto ai segnali oltremodo preoccupanti mandati dai blog nelle settimane successive al fatto di sangue. Blog in cui, dietro all’anonimato, veniva veramente riversato di tutto, anche con la compiacenza di chi ne aveva le responsabilità editoriali”.
Il ruolo e la responsabilità dei media
È lecito anche chiedersi, vista le caratteristiche della tragica vicenda, se le lacerazioni che si sono prodotte nella società, isolando per certi versi la comunità straniera, possono essere ricomposte. Che segnali coglie chi è al fronte? Esiste una possibilità di catarsi o comunque un tentativo di ricucire gli strappi?
“Purtroppo – osserva Martinoni – noto le continue e reiterate politicizzazioni degli eventi di cronaca – specialmente quelli che coinvolgono gli stranieri – e non vedo segnali di un’autoregolamentazione o di una presa di coscienza delle proprie responsabilità sociali da parte dell’apparato giornalistico, e non parlo soltanto di quello di partito”.
“È fuori di dubbio che per noi giornalisti sia molto più facile dipingere completamente di nero o di bianco situazioni che invece andrebbero valutate secondo una moltitudine di sfumature. Questo – puntualizza il giornalista – perché la prudenza e la riflessione sono una merce ormai considerata fuori moda, in un contesto sempre più agguerrito, di concorrenza non sempre leale, alla ricerca dello scoop o della trovata ad effetto. L’unico strumento che ci rimane – conclude – è la nostra coscienza”.
swissinfo, Françoise Gehring, Locarno
Il processo a carico dei tre giovani accusati della morte di Damiano Tamagni, alle Assise criminali di Locarno, è alle battute conclusive. Due devono rispondere di omicidio intenzionale, mentre uno di aggressione.
Le richieste di pena pronunciate dal Ministero pubblico sono stati di 10 anni di reclusione per Ivica Grgic (accusato di omicidio intenzionale), 10,6 anni per Marko Tomic (accusato di omicidio intenzionale) e 3 anni per Ivan Jurkic (accusato di aggressione)
Venerdì spazio all’intervento dell’avvocato di parte civile e alla prima arringa della difesa. Lunedì continuzione delle arringhe e spazio a repliche e dupliche. La sentenza è attesa per martedì.
Codice penale
Le pene previste dal Codice penale per il pestaggio sono contemplate in tre articoli di legge:
Art. 111Omicidio intenzionale: chiunque intenzionalmente uccide una persona è punito con una pena detentiva non inferiore a cinque anni.
Art. 134Aggressione: chiunque prende parte ad un’aggressione, a danno di una o più persone, che ha per conseguenza la morte o la lesione di un aggredito o di un terzo, è punito con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.
Art. 133Rissa: chiunque prende parte ad una rissa che ha per conseguenza la morte o la lesione di una persona, è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria.
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