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I «buoni migranti» che fanno felice il calcio svizzero

Gökhan Inler, Stephan Lichtsteiner e Johan Djourou durante un allenamento: 15 nazionali svizzeri su 23 hanno radici straniere. Keystone

Tra le 32 squadre impegnate nei mondiali brasiliani, la nazionale svizzera è quella che annovera nei suoi ranghi il maggior numero di giocatori di origine straniera. I vari Shaqiri, Rodriguez, Inler e Behrami sono la vetrina del modello d’integrazione svizzero o sono semplicemente lo specchio di uno sport praticato soprattutto dagli immigrati?

Il suo nome dalle sonorità balcaniche risuona ormai nel cuore di tutti i tifosi: Haris Seferovic, goleador provvidenziale della nazionale svizzera di calcio, che ha permesso al suo paese di conquistare un prezioso successo (2-1) contro l’Ecuador nella prima partita dei mondiali. Nel 2009 era già stato lui a segnare la sola rete nella finale del campionato del mondo under 17 in Nigeria, iscrivendo per la prima volta della storia il nome della Svizzera nel firmamento del calcio mondiale.

Nato in Svizzera da genitori fuggiti dalla Bosnia alla fine degli anni ’80, Seferovic fa parte dei numerosi giocatori di origine straniera (15 su 23) che compongono la nazionale svizzera di calcio. La selezione elvetica è addirittura la più cosmopolita del mondiale, secondo lo specialista di infografica australiano James Offer, che si è basato sui legami con l’estero (nascita, genitori o nonni) di ogni giocatore. La nazionale rossocrociata presenta 21 legami, davanti all’Australia (18), l’Algeria, la Bosnia-Erzegovina e la Francia, che ne hanno 16 ognuna.

Gran parte dei selezionati sono dei cosiddetti «secondos», con almeno uno dei genitori che proviene da un paese straniero. Non è raro che abbiano la doppia nazionalità, come l’iberico-svizzero Philippe Senderos.

Portieri:

Diego Benaglio, nonni italiani

Roman Bürki, svizzero

Yann Sommer, svizzero

Difensori:

Philippe Senderos, genitori serbo e spagnolo

Johan Djourou, nato in Costa d’Avorio

Michael Lang, svizzero

Fabian Schär, svizzero

Stephan Lichtsteiner, svizzero

Steve von Bergen, svizzero

Reto Ziegler, svizzero

Ricardo Rodriguez, genitori cileni

Centrocampisti:

Tranquillo Barnetta, doppia nazionalità italiana e svizzera

Valon Behrami, nato in Kosovo

Blerim Dzemaili, nato in Macedonia

Gelson Fernandes, nato a Capo Verde

Gökhan Inler, genitori turchi

Xherdan Shaqiri, nato in Kosovo

Admir Mehmedi, nato in Macedonia

Valentin Stocker, svizzero

Granit Xhaka, genitori albanesi

Attaccanti:

Haris Seferovic, genitori bosniaci

Mario Gavranovic, genitori bosniaci

Josip Drmic, genitori croati

«Prova di tolleranza»

Anche il capitano della squadra, Gökhan Inler, ha la doppia nazionalità. «Ho affidato il ruolo di capitano a Gökhan Inler, un immigrato turco, poiché volevo dare maggiore importanza in questa squadra ai giocatori di origine straniera. Questa diversità rappresenta bene la Svizzera attuale ed è una prova della sua tolleranza. Siamo fieri di mostrare che il paese può integrare bene i suoi stranieri», ha recentemente dichiarato il tecnico della nazionale Ottmar Hitzfeld, in un reportage della televisione francese Canal+ dedicato a questa «nazionale non così neutra».

Molti giocatori sono nati all’estero. È il caso ad esempio di Xherdan Shaqiri, la star della squadra, nato in Kosovo e che non esita a mostrare di avere più radici. Quando ha segnato una rete durante una partita di qualificazione in Albania l’anno scorso, «XS» ha deciso di non esprimere la sua gioia, in segno di «rispetto» nei confronti del suo paese d’origine.

Questa diversità è relativamente recente. Vent’anni fa, durante la coppa del mondo negli Stati Uniti, il giocatore di origine argentina Nestor Subiat era l’unico naturalizzato della squadra. Ai mondiali del 2006, otto giocatori con radici stranieri facevano parte della selezione di Köbi Kuhn.

Uno sport meno identitario

Questa tendenza rappresenta un’eccezione svizzera, un modello d’integrazione riuscito? È quanto sembra pensare Peter Gilliéron, presidente dell’Associazione svizzera di calcio (ASF): «A mio avviso, non esiste un vettore d’integrazione più importante del calcio. In questi ultimi decenni, è praticando questo sport che gli immigrati si sono avvicinati di più alla Svizzera e agli svizzeri», dichiarava a swissinfo.ch dopo la vittoria dell’under 17 in Nigeria.

Sociologo dello sport all’Università di Losanna, Fabien Ohl è molto più pragmatico. Secondo lui, questo fenomeno si spiega prima di tutto con l’origine sociale dei migranti e le pratiche sportive specifiche della Svizzera. «In molti altri paesi il calcio è lo sport per eccellenza. In Svizzera è invece in concorrenza con l’hockey su ghiaccio e lo sci. Questi sport costano molto di più e tra gli svizzeri sono molto radicati dal punto di vista dell’identità. Non sono quindi di facile accesso per gli immigrati, che optano piuttosto per il calcio».

Il sociologo evoca un’altra ragione: il calcio è considerato da molti giovani immigrati o figli di immigrati come il miglior modo per raggiungere il successo e ottenere riconoscenza sociale. «Poiché le figure in cui si identificano sono spesso legate all’immigrazione, ciò spinge i figli dei migranti a praticare questo sport», osserva Ohl. Sugli oltre 250’000 tesserati, un terzo non è di nazionalità svizzera.

Questi giocatori non esitano a sfoggiare le loro ambizioni, la loro voglia di guadagnare e di riuscire a sfondare ad ogni costo nel calcio, mentre molti giovani svizzeri – e i loro genitori – durante l’adolescenza preferiscono mettere l’accento sugli studi o l’apprendistato.

Il risultato dell’«immigrazione di massa»

L’interesse manifestato dall’ASF nei confronti dei binazionali, ai quali vengono offerte rapidamente delle responsabilità in seno alla squadra nazionale, così come un sistema di formazione reputato nel mondo intero, spiegano pure in gran parte questo successo.

Ciò non toglie che la selezione svizzera intriga, in particolare dopo il freno all’immigrazione accettato dagli elettori svizzeri il 9 febbraio scorso. Alcuni osservatori sottolineano questo paradosso. «Non dimentichiamoci che tutti questi giocatori sono il risultato della cosiddetta ‘immigrazione di massa’, scrive ad esempio il media online elvetico journal21. I loro genitori provengono dall’estero, principalmente da paesi che non fanno parte dell’UE, e per fortuna sono potuti venire con le loro famiglie. In caso contrario, il talento di tutti questi ragazzi – alcuni dei quali sono nati in Svizzera – non avrebbe mai potuto essere scoperto».

In visita in Brasile per sostenere la squadra rossocrociata, il ministro della difesa e dello sport Ueli Maurer, il cui partito – l’Unione democratica di centro (UDC) – è stato all’origine dell’iniziativa «contro l’immigrazione di massa», è stato a tal proposito stuzzicato dai giornalisti. «Cosa pensa di questa squadra multiculturale così lontana dagli stereotipi veicolati dal suo partito?», gli ha chiesto Le Matin Dimanche. «Non sono d’accordo, l’UDC si è sempre rallegrata quando gli stranieri si integrano e lavorano per il bene della Svizzera», ha risposto.

Il calciatore, questo «buon migrante».

Fabien Ohl non è sorpreso oltre misura da questo discorso. «Il calciatore è considerato come il buon migrante, poiché serve la patria e fa la fierezza del suo paese d’accoglienza. Inversamente, lo straniero che commette dei delitti o che non ha le stesse pratiche culturali delle nostre rappresenta la spauracchio. Tutti gli stranieri comuni, non specialmente brillanti e non particolarmente minacciosi, sono invece assai poco visibili».

Attenzione però all’effetto boomerang, avverte il sociologo: «Quando la squadra multiculturale ha successo, tutti lodano questa diversità. Dal momento in cui vi sono delle difficoltà o scoppiano delle polemiche, le differenze riprendono il sopravvento. La Francia [adulata dopo il trionfo del 1998 e su cui sono piovuti gli insulti dopo lo sciopero in Sudafrica nel 2010] ne è il perfetto esempio».

Incontrando i giornalisti qualche giorno dopo la vittoria contro l’Ecuador, in cui ha firmato l’azione che ha portato al gol della vittoria, il centrocampista del Napoli Valon Behrami, nato in Kosovo, ha abbordato, tra le altre cose, il suo percorso in nazionale e il suo ‘essere’ svizzero. Estratti di un’intervista rilasciata al Corriere del Ticino:

Più forte questa emozione o il gol alla Turchia nello spareggio per i Mondiali del 2006?

Questa, non c’è dubbio. Allora ero appena arrivato in nazionale, non ero inserito così bene nei meccanismi della squadra. E non mi sentivo così fiero di essere svizzero.

Behrami simbolo di questa Svizzera, dunque?

Mi sento un simbolo della squadra, sì. Quell’azione rappresenta il modo in cui dobbiamo giocare, sempre. Non abbiamo le qualità di Francia, Germania o Brasile, anche se davanti ora disponiamo di soluzioni importanti. Non possiamo permetterci di perdere questa mentalità operaia, il giorno che la lasciamo negli spogliatoi per noi è finita.

Ha parlato di «svizzeritudine», cosa significa essere svizzero oggi?

Quando segnai contro la Turchia ero troppo giovane. Non avevo ancora realizzato l’importanza della Svizzera per il mio percorso umano. Con il tempo ho capito, ho capito la possibilità che mi ha dato questo Paese. E per me, come per gli altri, la maniera migliore per ripagare questa fiducia è dare tutto in campo, fino alla fine, sempre. Cantare o meno l’inno è una questione che non ritengo affatto importante. È giocando e lottando su ogni pallone che puoi ridare qualcosa alla patria. Sono di origini kosovare, i tanti figli di immigrati che ci seguono da casa sono con me, si sentono parte integrante della Svizzera. E credo che il mio atteggiamento abbia contribuito a creare questo legame. Mi sento kosovaro nello spirito, nel carattere anche, ma ragiono come uno svizzero, mi sento e vivo come tale. È il miglior mix che possa avere.

Le altre culture quanto hanno arricchito il calcio elvetico?

Tatticamente e tecnicamente siamo tutti svizzeri, anche mentalmente. È la Svizzera, con le sue scuole e le sue strutture, che ha cresciuto questa generazione di calciatori. Probabilmente, quando devi metterci il cuore o la fantasia vengono fuori le seconde nazionalità.

Fonte: Corriere del Ticino

(traduzione di Daniele Mariani)

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