L’invisibile peste nera
A un anno di distanza dall’esplosione alla piattaforma nel Golfo del Messico, la vita ha ricominciato il suo corso normale. Rimane tuttavia l’incertezza sui danni a lungo termine conseguenti alla catastrofe ecologica, afferma Nikolaus Gelpke, editore della rivista Mare.
«Il petrolio è una sostanza altamente tossica e anche se non la si vede più, è ancora presente nella catena alimentare. A lungo termine, le conseguenze sull’ecosistema non sono valutabili», spiega a swissinfo.ch Nikolaus Gelpke, biologo marino svizzero.
A un anno dall’esplosione della piattaforma “Deepwater Horizon”, lo spettro della marea nera non è quindi scomparso, anche se le spiagge sulla costa meridionale degli Stati Uniti sono di nuovo punteggiate da migliaia di ombrelloni e al largo i pescatori gettano le reti.
Sono trascorsi 365 giorni dal momento in cui tutto ha avuto inizio. Era il 20 aprile 2010 quando nel Golfo del Messico, sulla piattaforma gestita dalla British Petroleum (BP), un’esplosione ha innescato un indomabile incendio. Due giorni dopo, è sopraggiunto il collasso: la struttura si è inabissata ed ora giace in fondo al mare. Ma soprattutto dall’imboccatura del pozzo, per 86 giorni sono sgorgati ininterrottamente decine di migliaia di barili di greggio al dì. Soltanto il 15 luglio 2010, la BP è riuscita infatti a chiudere la falla a 1600 metri di profondità.
Soccorritori affetti da malattia misteriosa
Nei tre mesi successivi l’esplosione, la fauna e la flora, il mare e le coste meridionali degli Stati Uniti sono state preda dei tentacoli dell’oro nero. A casa, il mondo intero ha assistito attonito e incredulo a questa ennesima catastrofe ecologica. I media hanno trasmesso immagini di uccelli con il piumaggio incollato dalla pece nera, chiazze di petrolio galleggianti in mare, spiagge invase dal catrame.
«Queste fotografie hanno un impatto enorme sull’opinione pubblica. Ma le conseguenze peggiori non si vedono, poiché i danni al patrimonio genetico sono difficilmente individuabili», sottolinea Gelpke.
«È ancora troppo presto per valutare le ripercussioni della marea nera sull’uomo. Tuttavia, studi svolti sui volontari che ripulirono le coste della Galizia, in Spagna, hanno indicato un tasso maggiore di persone affette da cancro alla pelle o da difficoltà respiratorie», spiega l’editore della rivista Mare.
Le prime testimonianze raccolte tra i soccorritori del disastro ecologico nel Golfo sembrano inoltre indicare che il contatto con le sostanze tossiche abbia messo a repentaglio la loro salute. Il responsabile del loro malessere potrebbe essere il benzene, secondo gli esperti locali.
L’oro nero non è sparito
Oggi, dei 780 milioni di litri di greggio fuoriusciti non c’è quasi più traccia. «Dopo una catastrofe petrolifera, la cosa più importante è il processo naturale di degradazione del petrolio attraverso i batteri. Questo processo dipende dal numero dei cosiddetti mangia idrocarburi e dalla loro attività, condizionata dalla temperatura del mare. E la speranza del Golfo è riposta proprio nelle sue caratteristiche: l’acqua calda e l’elevato numero di batteri, particolarmente attivi, ci fa sperare che grande parte del petrolio venga scomposta in breve tempo», spiega Gelpke, ricordando tuttavia che non crede alle cifre comunicate dalla BP, poiché non è possibile fornire indicazioni attendibili su quanto accade a tale profondità.
«Ciò di cui sono certo – continua – è che si è trattato della seconda peggiore catastrofe petrolifera al mondo, dopo quella della prima guerra del Golfo quando si sono fatti esplodere gli oleodotti».
L’evaporazione naturale del greggio, il lavoro delle squadre addette alla pulizia delle spiagge, l’aspirazione in superficie del petrolio, gli incendi controllati in alto mare, il tempo atmosferico, lo spargimento di agenti disperdenti hanno permesso di evitare il peggio. Tuttavia, tutto l’oro nero non è sparito nel nulla. «Basta infatti scavare un po’ sotto le mangrovie del delta del Mississippi per scoprire sedimenti di petrolio. Lì non è stato possibile ripulire l’ecosistema dalla massa oleosa. Inoltre, a differenza di altri incidenti petroliferi, questo si è verificato in profondità e non possiamo sapere come il greggio si è distribuito nella colonna d’acqua», ricorda Gelpke.
Non ci si ferma dinnanzi a nulla
Pur avendola dichiarata “la peggiore catastrofe ecologica” della storia degli Stati Uniti, le autorità americane hanno già girato pagina. Dopo aver elaborato misure di sicurezza più severe, la Casa Bianca ha sospeso all’inizio di ottobre la moratoria sulle trivellazioni in acque profonde nel Golfo del Messico. Per la BP, le attività potrebbero invece ricominciare nel mese di luglio di quest’anno.
«Anche con normative più restrittive, non si può essere padroni della situazione in fondo al mare», sostiene il biologo marino, affermando inoltre che la BP, oltre a riprendere le trivellazioni nella zona della marea nera, è intenzionata a iniziare le esplorazioni nel mare di Kara, a nord della Siberia, nell’Artico, latitudine in cui un incidente avrebbe conseguenze drammatiche, come ha dimostrato alla fine degli anni Novanta quello occorso alla petroliera Exxon Valdez.
«Il mare è una massa enorme che diluisce molto e in fretta. Questa caratteristica è nel contempo una fortuna e una maledizione. Possiamo infatti continuare a versare sostanze nocive nell’acqua senza renderci conto dei danni che provochiamo a lungo termine», conclude uno sconsolato Nikolaus Gelpke.
20 aprile 2010: un’esplosione sulla piattaforma innesca un incendio che causa la morte di undici persone.
22 aprile: la piattaforma affonda e si deposita sul fondale. Le valvole di sicurezza del pozzo non funzionano e il petrolio inizia a fuoriuscire.
7 maggio: la BP prova a tappare la falla con una cupola di cemento e acciaio. Il tentativo fallisce.
In attesa di trovare una soluzione definitiva, la BP posiziona un imbuto sopra il pozzo per recuperare parte del greggio. Inizia inoltre a trivellare due pozzi sussidiari. L’obiettivo è di raggiungere il pozzo principale per tapparlo con il cemento.
15 luglio: la BP dichiara di essere riuscita a tappare la perdita di petrolio.
3 agosto: la BP dà inizio a un’operazione volta a tappare definitivamente il pozzo mediante un’iniezione di fango e cemento attraverso i pozzi sussidiari.
Il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha intentato una causa civile contro la BP e la Transocean, implicate direttamente nella catastrofe del Golfo del Messico.
Le due società sarebbero inoltre coinvolte in numerosi procedimenti giudiziari: la BP in un migliaio, la Transocean in oltre seicento.
La BP ha preventivato un costo pari a 40 miliardi di dollari (circa 36 miliardi di franchi svizzeri) per pagare i danni causati dalla marea nera. Tuttavia, questo importo potrebbe non essere sufficiente, se la multinazionale verrà giudicata rea di negligenza e di omicidio colposo.
Anche contro la Transocean, la società di Houston che nel 2008 ha trasferito la sua base a Zugo, è stata promossa un’azione civile, visto che la Deepwater Horizon era di sua proprietà e che nove delle undici vittime erano sue dipendenti.
A inizio marzo, la Transocean ha stimato i costi della catastrofe per la società a circa 140 milioni di dollari (125 milioni di franchi).
Contro l’attuale dirigente della Transocean, Steven Newman, e il suo predecessore Robert Long è stata intentata una causa civile da parte dell’azionista Danica Pension, fondo pensione danese. I due potrebbero evitare la sbarra grazie a una particolarità del codice civile svizzero. Con l’approvazione in assemblea del rapporto delle attività dei dirigenti per l’anno fiscale 2010, gli azionisti potrebbero infatti rinunciare al loro diritto di adire alle vie legali nei loro confronti. L’assemblea della Transocean è prevista il 13 maggio 2011.
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